Ha letto tutto l’intervento, interrompendosi solo per sventolare all’aula gli atti con la carta intestata della corte d’appello di Milano. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è intervenuto in aula alla Camera in una informativa urgente sull’evasione dai domiciliari del russo Artem Uss, che doveva essere estradato negli Stati Uniti.

Il caso ha immediatamente preso i contorni del pasticcio istituzionale, poi è diventato un caso diplomatico e infine anche uno scontro tra poteri, con l’esecutivo contrapposto al giudiziario. Al centro dell’uragano il guardasigilli, che ha avuto un vertice con la premier Giorgia Meloni (il cui viaggio negli Stati Uniti sarebbe stato congelato) prima di intervenire davanti alla Camera nel ruolo che ormai lo contraddistingue: quello di parafulmine. In aula, infatti, è comparso da solo, senza altri ministri a fianco ma solo con i sottosegretari Andre Ostellari e Andrea Delmastro e il viceministro Francesco Paolo Sisto, e con scarsa partecipazione dei deputati di Lega e Forza Italia. Anche questi sono segnali da pesare nella dinamica occulta del governo.

Nordio ha ripercorso la cronologia degli eventi che hanno portato alla fuga di Uss, poi ha argomentato la difesa della macchina ministeriale, rifiutando l’accusa di inerzia, e la difesa propria, escludendo che l’articolo 714 del codice di procedura penale gli consentisse di chiedere ai giudici di disporre la misura cautelare in carcere, come invece altri giuristi – e le opposizioni in aula – hanno adombrato.

Poi è passato all’attacco: la ruota delle responsabilità, dopo aver girato per giorni, doveva fermarsi e il governo e via Arenula hanno puntato la magistratura. Detto fatto: Nordio ha promosso contro i tre giudici che hanno firmato il provvedimento motivato di domiciliari un’azione disciplinare per «grave e inescusabile negligenza».

Il boomerang

L’effetto è stato deflagrante. La mossa doveva offrire il perfetto capro espiatorio, allontanando ogni responsabilità del governo. Invece è riuscita a compattare contro il ministero della Giustizia la magistratura associata, con l’Anm pronta a dare battaglia, e addirittura l’avvocatura con le Camere penali. Nell’assemblea convocata in tutta fretta dall’Anm di Milano, erano presenti più di 170 magistrati – tra presenti e collegati da remoto – con una mobilitazione che non si vedeva dai tempi di Mani pulite.

Tra i corridoi di via Arenula, la ricostruzione è che dietro l’iniziativa del ministro – considerata «maldestra» e grossolana» anche da membri della maggioranza – sia stata pensata in via esclusiva dall’ufficio tecnico di Nordio e in particolare dalla vicecapo di Gabinetto, l’ex parlamentare di Forza Italia e magistrata Giusy Bartolozzi. L’obiettivo, quello che Nordio ha letto nel suo intervento: applicare il principio di uguaglianza e verificare se il comportamento dei giudici sia stato conforme ai «doveri di diligenza», perchè chi indossa la toga «non è meno uguale» rispetto ai cittadini sottoposti a procedimenti penali. Pazienza se viene messa in discussione la regola dell’insindacabilità da parte dell’esecutivo dei provvedimenti giudiziari motivati. E pazienza anche se, con tutta probabilità, l’iniziativa disciplinare – che viene portata avanti dalla procura generale di Cassazione davanti alla sezione del Csm – difficilmente andrà lontano.

L’ipotesi più accreditata è che Meloni, informata da Nordio dell’iniziativa, abbia scelto il male minore: per proteggere i servizi d’intelligence, il sacrificio necessario era quello di riaccendere il conflitto con la magistratura, usando come distrattore un ministro assolutamente credibile per la parte, visto l’antagonismo mai spento tra l’ex magistrato Nordio e larga parte della categoria dalla quale proviene. Con gran preoccupazione all’interno del ministero, tagliato fuori dalla regia di questa decisione e da cui sono già partite le colombe, che si stanno adoperando per riannodare i fili con l’Anm e l’avvocatura. Compito difficilissimo, in questo momento. «A maggio devono partire le riforme, ma in questo clima sarà un calvario», allarga le braccia una voce autorevole di via Arenula.

Il ministro

Nordio, del resto, sembra ormai essersi adeguato al ruolo di parafulmine di guai suoi e meno suoi. La legislatura è cominciata con lo scontro con i pm antimafia sulle intercettazioni – che Nordio vorrebbe ridurre per numero e delimitare nell’utilizzo – tanto da far arrivare l’altolà di Meloni, corredato da una nota formale di «piena fiducia» al ministro di cui già si ipotizzavano le dimissioni. È proseguita con il pasticcio su Cospito, con divulgazione di atti segreti da parte del duo di fedelissimi della premier Andrea Delmastro e Giovanni Donzelli, di cui Nordio si è incaricato di una difesa a oltranza. Ora il caso Uss e l’attacco frontale alle toghe per sviare l’attenzione da quello che, con tutta probabilità, è stato un cortocircuito a livelli ben più alti rispetto alla corte d’appello di Milano. Questo nei primi sei mesi di governo: ora Nordio intende portare in aula un cronoprogramma fatto di modifica dell’abuso d’ufficio e altri reati contro la pubblica amministrazione; la modifica della prescrizione e poi toccherà a intercettazioni e separazione delle carriere. Vaste programme, soprattutto dopo aver deteriorato i con la magistratura.

Del resto, la politica ha cambiato molto il carattere di Nordio, che da ex magistrato amava sentirsi eretico. Loquacissimo lo era anche prima di arrivare al ministero, mentre è sparito il suo gusto per le posizioni autonome e di minoranza. Quando è stato «fortemente voluto» da Meloni alla Giustizia, in FdI ci si interrogava sul fatto che potesse essere troppo indipendente per un partito così rigorosamente gerarchico. Paura infondata: sono bastati pochi mesi a via Arenula per fargli preferire l’ossequio totale alle posizioni della maggioranza.

Quanto al garantismo, che Nordio ha sempre affiancato alla definizione di se stesso insieme all’orientamento liberale, le tracce rimaste sono scarse. In questi mesi, infatti, la sua firma è finita sotto il nuovo reato di rave party e l’inasprimento delle pene per gli scafisti. Sotto traccia ma fortissima, infatti, è la subalternità rispetto al Viminale di Matteo Piantedosi: la vera politica criminale, con proliferazione di nuovi reati dalle pene abnormi, è infatti guidata dal ministero dell’Interno, mentre a via Arenula è rimasto il blando garantismo di facciata legato ai reati contro la pa. «Garantista non lo è stato per nulla quando era magistrato, basti ricordare la sua inchiesta sulle coop rosse durante Tangentopoli, in cui non ha lesinato misure cautelari e attacchi corporativi alla politica», è la voce che si ripete tra chi lo ha conosciuto professionalmente. Questo è il livello dello scontro che ha innescato con i suoi ex colleghi, che si preannuncia lungo e logorante.

© Riproduzione riservata