Del carattere veneto ha la giovialità. Carlo Nordio l’ha mantenuta anche durante i durissimi scontri con i colleghi della procura di Milano, a cavallo di Tangentopoli. Magistrato fuori dagli schemi correntizi, è stato presenzialista in tv e loquace sulla carta stampata, ma anche sempre pronto ad andare contro l’opinione dominante, tanto da inimicarsi equamente sia una parte della magistratura che i politici sui quali ha indagato.

Nato nel 1947 a Treviso, laureato in Giurisprudenza a Padova nel 1970 e dal 1977 procuratore a Venezia, la sua vita professionale si è svolta in un triangolo di 80 chilometri quadrati che oggi è diventato il suo collegio elettorale. Il Veneto, infatti, rimane la terra della seconda vita di Nordio: quella in politica, da capolista di Fratelli d’Italia alla Camera nel collegio plurinominale Veneto 1 – che comprende per l’appunto Treviso, Padova e Venezia – e nell’uninominale che corrisponde a Treviso.

La sua candidatura non ha stupito, come non stupisce che Fratelli d’Italia lo voglia al ministero della Giustizia. Tra i pochi magistrati apertamente di destra – anche se lui ha sempre preferito definirsi liberale ed elenca nel suo pantheon Immanuel Kant, William Shakespeare e Winston Churchill – non si è mai sottratto a incarichi politici come, ad esempio, la presidenza della fallita commissione Castelli per la riforma del codice penale. Né ha fatto mistero di guardare alla politica una volta smessa la toga. Chi lo conosce lo avrebbe collocato nell’alveo di Forza Italia, ma il tramonto del berlusconismo non avrebbe potuto offrirgli un collegio sicuro. Fratelli d’Italia invece gli ha permesso di conquistare il ministero della Giustizia.

La vita in procura

Silenziosamente c’è chi si interroga: non sarà troppo indipendente per un partito così rigorosamente gerarchico? Nel foro veneziano, notoriamente non tenero con la controparte in magistratura, lo descrivono come «un magistrato anche troppo libero. Uno che non ha mai sgomitato, ma che nello stesso tempo si notava». Non troppo diverso il controcanto tra le toghe: divisivo sì, ma tutti riconoscono che «non era una carrierista».

Nei suoi quarant’anni di magistratura di cui buona parte vissuti sotto i riflettori Nordio ha legato la sua carriera a una città – Venezia – rinunciando a incarichi direttivi. Fino a 65 anni è rimasto sostituto procuratore, è diventato aggiunto solo nel 2009 e ha gestito la procura veneziana come facente funzioni nell’anno del pensionamento, nel 2017, prima della nomina del nuovo capo. «Mettermi a dirigere un ufficio sarebbe stato come mettere un pilota da guerra dietro una scrivania. A me piaceva fare i processi», dice lui.

Eppure, una delle malignità di procura è che Nordio non sia mai stato uno stakanovista e che la luce del suo ufficio alle 17 fosse spesso spenta. Voci che Nordio quasi conferma: «Sono del parere che un magistrato non debba mai lavorare troppo. Sa quanti magistrati stanchi ho visto commettere errori tremendi? Meglio prendersi del tempo, piuttosto che fare danni». Del resto, non ha mai vissuto la magistratura come una missione o un sacerdozio e, al momento della pensione, ha consigliato ai giovani colleghi: «Leggete qualche libro in più e qualche saggio giuridico in meno».

Le inchieste

La carriera di Nordio è legata a due grandi inchieste, che hanno colpito una a sinistra e l’altra a destra. La prima, nel 1993, ha riguardato le cosiddette “coop rosse”. In realtà l’indagine per finanziamento illecito nasceva a carico dei vertici veneti del Psi e della Democrazia cristiana, con le condanne di Gianni De Michelis e Carlo Bernini, e solo dopo si è allargata anche ai comunisti. Partendo dai fallimenti di alcune cooperative agricole venete, Nordio aveva ipotizzato che il meccanismo fosse di creare coop agricole per ottenere finanziamenti pubblici, dirottare il denaro al partito e poi farle fallire.

Nordio si è mosso con grande clamore mediatico: ha sequestrato i bilanci delle feste dell’Unità delle sette federazioni del Pds veneto e l’operazione è stata ribattezzata “Braciola pulita”, perchè si indagavano le spese per polenta, vino merlot, salsicce e bigoli.

Specularmente, a Milano, lavorava sulla stessa traccia Titti Parenti, la magistrata che nel 1994 lascerà il pool e la toga per candidarsi con Forza Italia. L’uomo chiave è Alberto Fontana, dirigente regionale delle coop venete, che poi è stato condannato a tre anni e otto mesi. Ma a fare più scalpore sono gli avvisi di garanzia a Massimo D’Alema, appena diventato premier, Achille Occhetto e Bettino Craxi. I tre vengono sentiti a Roma e D’Alema liquida l’inchiesta in modo caustico: «È stato un momento importante del dibattito sul surrealismo».

Intanto, il Pds attaccava furiosamente Nordio, accusandolo di aver costruito un teorema sul “non potevano non sapere”. Alla fine, tutto si è sgonfiato ed è finito in rivoli secondari. È stato Nordio stesso a chiedere l’archiviazione per i vertici del Pds, scrivendo che «è inaccettabile l’assioma che chi stava al vertice non potesse non sapere». Lo strascico finale è stato da commedia all’italiana: agli imputati non è stata mai comunicata l’archiviazione e, nel 2006, D’Alema e Occhetto hanno chiesto un risarcimento per ingiusto ritardo.

L’altra grande inchiesta a cui è legato il nome di Nordio è quella sul Mose, il progetto architettonico per proteggere Venezia dall’alta marea. L’indagine del 2014 ha portato a 35 arresti e i domiciliari per l’allora sindaco della città, Giorgio Orsoni (poi assolto). Giancarlo Galan, che per 15 anni era stato presidente della regione Veneto in quota Forza Italia, ha scontato due anni ed è stato condannato al risarcimento di 5,8 milioni di euro. L’inchiesta ha decapitato i vertici politici veneti e rinverdito il filone dei processi per corruzione.

Eppure, quella che Nordio ricorda con più orgoglio è una delle sue prime inchieste. Aveva 35 anni e indagava sulle sulle Brigate rosse, azzerando la colonna veneta: tutti i brigatisti condannati e poi pentiti. «Giravo scortato e armato, ricevevo lettere con la stella a cinque punte ma ricordo che sentivo che erano in gioco lo stato e la democrazia», dice.

Gli scontri

Mai avaro di dichiarazioni pubbliche, il vero terreno di scontro tra Nordio e i colleghi, in particolare la procura di Milano, è stato il dibattito su Tangentopoli e la sua eredità culturale. Sul piano processuale la guerra tra lui e Paolo Ielo è arrivata fin davanti al Csm.

Milano aveva intercettato Craxi al telefono con il suo avvocato, Salvatore Lo Giudice, che gli diceva che Nordio era un giudice fidato. Ielo aveva avvertito Nordio che era stato tirato in ballo e poi una fuga di notizie aveva portato l’intercettazione sui giornali: Nordio aveva difeso l’avvocato Lo Giudice, sostenendo che l’intercettazione era illegittima perché violava il divieto di ascolto dei colloqui tra legale e assistito, e aveva attaccato l’operato di Milano, che così rischiava di sabotare la sua indagine sulle coop.

Milano si era difesa, sostenendo di non sapere che Lo Giudice fosse un avvocato e che l’intercettazione era stata mandata a Nordio per tutelarlo da illazioni. Lo scontro era finito al centro del dibattito pubblico e poi a palazzo dei Marescialli, che aveva archiviato ma senza mai risolvere l’inimicizia tra le due procure. Su quello culturale, Nordio si è scontratp soprattutto con Antonio Di Pietro quando ha proposto di chiudere la stagione di Mani pulite con una frase: «Chi vuole l’amnistia la paghi». Ovvero, la possibilità per gli imputati di evitare il carcere confessando il reato commesso e pagando ai danni.

Il garantismo

La sua cifra di oggi è quella del garantismo, ma l’etichetta non gli è stata sempre propria. Negli anni di Tangentopoli è stato tra quelli che hanno utilizzato in modo diffuso la custodia cautelare in carcere e ha firmato un documento insieme ad altri 200 magistrati contro le norme che restringevano la possibilità di disporla.

Solo anni dopo ha ammesso: «Anche io ho fatto i miei bravi arresti e i miei bravi errori giudiziari». A trent’anni di distanza, Nordio fissa il momento della svolta con un suicidio: un maestro di Treviso, da lui arrestato e poi scarcerato, che un mese dopo si è suicidato. «Mi portò a riflettere su quante misure cautelari potevano essere evitate».

Non a caso lui, magistrato di destra, su questi temi ha scritto il libro “In attesa di giustizia”, a doppia firma con l’avvocato di sinistra Giuliano Pisapia. Un altro volume lo ha dedicato a “Calogero Mannino e alle altre vittime di errori giudiziari”. Di lui si ricordano soprattutto le posizioni di minoranza, che ribadisce anche ora che corre in un seggio blindato per il partito dato per vincente: depenalizzazione di molti reati, la necessità di una legge sul suicidio assistito, il ritorno all’immunità parlamentare e la discrezionalità dell’azione penale. Con il rischio dell’eterogenesi dei fini che per la destra Nordio diventi subito più una spina nel fianco che un vantaggio strategico. E che proprio questo gli precluda via Arenula.

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