In questi giorni pressocché concordemente si sente invocare la necessità di un recupero della credibilità dell’autogoverno della Magistratura; di riacquistare fiducia da parte dei colleghi; di una sorta di rifondazione, anche morale, dell’istituzione.

Ogni candidato, in ogni sede, richiama questa necessità, e del tutto legittimamente, perché quanto accaduto ha rappresentato un vero e proprio trauma per ciascuno di noi e per il potere dello Stato che rappresentiamo.

La vicenda dell’hotel Champagne supera di gran lunga quanto fosse immaginabile anche nel peggiore degli incubi: un drappello di Consiglieri unitamente ad un politico intenti, nel retrobottega di un albergo della capitale ed in ora notturna, a stipulare accordi sulla nomina del dirigente di un ufficio nevralgico, in spregio ad ogni elementare principio, deontologico e non.

Roba da fantapolitica, da complottismo estremo, eppure è accaduto ed ha avuto un impatto devastante sui colleghi, per la stragrande maggioranza brave persone dedite a cercare di far funzionare la giurisdizione spesso in condizioni inimmaginabili all’esterno.

Il discorso potrebbe chiudersi qui, se non fosse invece necessaria, a mio avviso, un’autocritica profonda, senza la quale ogni rinnovamento rischia di ricadere in nuove distorsioni.

Perché con il passare degli anni si è affermato, sotto gli occhi di tutti, un modo di sentire, di pensare, di gestire il rapporto con l’autogoverno che ha completamente stravolto il senso di quell’attività e degli stessi gruppi associativi (o correnti, come si chiamavano un tempo), da un lato infondendo sfiducia nei colleghi che restavano lontani da quelle esperienze, dall’altro stimolando un carrierismo spinto che ha profondamente mutato lo stesso assetto della dirigenza, vissuta non come un servizio, ma come un esercizio di potere  e dunque come una sorta di prerogativa personale.

Le distorsioni correntizie

Chi ha vissuto questi anni sa benissimo di cosa sto parlando: l’idea (peraltro il più delle volte fondata) che “se non sei appoggiato da una corrente non vai da nessuna parte”;  l’idea (spesso alimentata trasversalmente dagli stessi Consiglieri) che “se non fai la telefonata come si fa a capire che quel posto ti interessa veramente?”;  le nomine a pacchetto giustificate dalla considerazione che “è vero, è un sistema sbagliato, ma ci consente di scegliere per quel posto il nostro candidato X, che è il migliore ed il più adatto” (circostanza spesso vera); la convinzione che in fondo nell’autopromozione presso il Consigliere amico non ci sia nulla di male, anche se magari per effetto di ciò viene tagliato fuori un candidato anche più adatto, ma del tutto ignoto.

Il tutto accompagnato dalla dilagante convinzione che se a 60 anni e dopo 33 di servizio non chiedi uno straccio di semidirettivo sei una sorta di fallito; che se dopo avere presieduto un Ufficio torni a fare il semplice magistrato subisci una terribile deminutio; che fare il dirigente vuol dire comandare sugli altri ed avere più prestigio e maggiore visibilità, con conseguente corsa ad accaparrarsi quei ruoli e tendenza a “studiare da capi” fin da piccoli, collezionando medagliette utili alla valutazione e tenendo i contatti giusti.

Con tutto ciò non voglio certo dire che tutte le nomine fossero prodotto di questo meccanismo, ma che con il passare degli anni avevamo finito in molte occasioni per accettare contesti che accettabili non erano affatto.

E su questo si deve appuntare l’autocritica: perché le distorsioni che ho descritto sono accadute sotto gli occhi di tutti, ed in particolare di coloro che, come chi scrive, pur appartenendo da sempre ad una corrente erano del tutto estranei a quelle logiche, e tuttavia non le hanno combattute e denunciate con la necessaria forza.

Faccio autocritica

Faccio autocritica io per prima: sono da sempre iscritta a Magistratura Democratica, ed ho sempre vissuto la corrente come un luogo di elaborazione di pensiero e non come un centro di potere.

Per oltre 32 anni non ho mai fatto una domanda per un ruolo dirigenziale perché mi piace troppo fare il magistrato, e non ritengo un’onta essere coordinata da altri.

Sono, dunque, lontana anni luce dai contesti che ho prima descritto, e tuttavia credo di non averli combattuti con la dovuta energia, ad esempio denunciandoli e proponendo a voce alta modelli diversi.

Quali?

E’ stato scritto da altri molto meglio di come possa farlo io.

Innanzitutto rendere nuovamente i gruppi associativi centri di elaborazione del pensiero, e non distributori di vantaggi di varia natura, e ciò è possibile se il Consiglio, pur nella discrezionalità che gli è propria e senza la quale non potrebbe operare, agisce sulla base di criteri di coerenza e trasparenza (solo per fare un esempio, non è accettabile che l’avere svolto funzioni di tipo diverso, o l’essere collegati al territorio, abbiano una valenza opposta a seconda delle decisioni, come in passato troppe volte accaduto). 

Togliere agli incarichi dirigenziali ogni appetibilità narcisistica, trasformandoli in ruoli di servizio e non di potere, garantendo una temporaneità effettiva di quelle funzioni (evitando, per parlare chiaro, il fenomeno del “club dei capi”, con buona pace della Magistratura orizzontale) e soprattutto rendendo il momento della conferma non un formale simulacro, ma una verifica effettiva dell’azione dell’interessato, anche interpellando gli “stakeholders” di quell’attività (colleghi, personale, COA, il cui parere si riduce spesso oggi ad una mera formalità).

Investire nella formazione, per promuovere un modello di magistrato portatore di un servizio che ha pari dignità qualunque funzione venga svolta.

Ed infine avere il coraggio di denunciare a gran voce ogni distorsione, anche e soprattutto da parte di chi svolge attività associativa.

Perché, come cantava un grande Poeta, per quanto noi ci crediamo assolti, siamo per sempre coinvolti.

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