È l’alba del 17 giugno 1983 ed Enzo Tortora dorme nella sua stanza dell’hotel Plaza di Roma: il giorno prima era al piccolo Eliseo, dove registrava la sua trasmissione “l’Italia parla”. Le forze dell’ordine bussano, irrompono, lo ammanettano e perquisiscono cassetti e valigia.

Aspettano che sia mattina, però, per portarlo in carcere a Regina Coeli con un’uscita plateale dal comando operativo: davanti lo aspettano cameramen e fotografi, debitamente avvertiti, che gridano di mostrare le manette. Così è, un carabiniere a destra e uno a sinistra a tenerlo per le braccia, e i giornali il giorno dopo avranno la loro foto dei ceppi ai polsi di quello che era uno dei conduttori televisivi più noti d’Italia.

Cominciava così, quarant’anni fa esatti da oggi, uno dei peggiori errori giudiziari della storia italiana e l’incubo personale per una famiglia normale. L’unico assolto, dopo quattro anni di processo, è stato Tortora. Non la magistratura che diede credito a falsi pentiti, non la stampa che si cibò voracemente della vicenda. Non gli intellettuali, salvo rare eccezioni.

L’inchiesta

L’accusa a carico del conduttore era pesantissima: traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico nell’ambito della nuova camorra organizzata del boss Raffaele Cutolo. Il suo arresto era stato uno degli 856 che erano stati disposti dalla procura di Napoli in un blitz di quelli da prima pagina. A fare il nome di Tortora erano stati due pentiti, Giovanni Pandico e Pasquale Barra, e il cognome era scribacchiato a mano accanto a un numero di telefono, su un’agendina nera trovata nella casa di ‘o Giappone, al secondo Giuseppe Puca, professione camorrista.

Una perizia grafica dimostrò che il nome scritto era Tortona e il numero corrispondeva a quello di una sartoria, ma non fu sufficiente. A inguaiarlo c’era una storia di centrini, inviati dai detenuti di Pianosa tra cui Pandico a Portobello, la storica trasmissione di Tortora e un rimborso che lo stesso presentatore inviò, dopo che i centrini erano andati persi. Forse per questo Pandico, diagnosticato schizofrenico e paranoico, iniziò a inviargli lettere di minaccia e poi lo accusò davanti ai giudici. A lui seguirono altre 16 persone, con testimonianze incredibilmente simili l’una all’altra.

Tanto bastò ai magistrati per portarlo a processo e ai giudici di primo grado a condannarlo a 10 anni di carcere, nel 1985. Con il procuratore Diego Marmo che lo definì «cinico mercante di morte» e Tortora che protestò, guadagnandosi anche l’accusa di oltraggio alla corte. Tortora, che nel frattempo era stato eletto europarlamentare con il partito radicale, si dimise rinunciando all’immunità e andò ai domiciliari.

Servì un altro anno, l’appello e quasi una controinchiesta della corte d’appello di Napoli, perchè Tortora venisse assolto con formula piena. Emerse che alcuni camorristi avevano dichiarato il falso per ottenere sconti di pena, altri per ottenere la ribalta mediatica. In quell’aula, Tortora chiuse la sua difesa dicendo alla corte: «Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi».

L’unico dei magistrati a chiedere scusa alla famiglia, pur continuando a ritenere corretta l’indagine, fu Diego Marmo nel 2014. Tutti proseguirono la loro carriera fino ad arrivare chi alla Procura nazionale antimafia, chi a dirigere procure importanti.

I procedimenti disciplinari al Csm si conclusero con altrettanti proscioglimenti. Del caso, oltre all’ingiustizia della condanna ad un innocente, rimane il maldestro uso di falsi pentiti e il gusto macabro del tintinnar di manette, tanto meglio se esibite davanti ad una stampa debitamente preallertata. Anche le reti Rai, infatti, mandarono in onda ininterrottamente e senza pietà le immagini dell’arresto.

Il processo mediatico

Tortora morì nel 1988, a 59 anni, un anno dopo la definitiva assoluzione in Cassazione. Fece in tempo a tornare in televisione, nella sua Portobello, per salutare il suo pubblico ed esordire con: «Dove eravamo rimasti?».

La frase che condensa il clima di quei quattro anni di processo, però, è stata scritta da Camilla Cederna. La firma del Corriere della Sera, tra le voci più importanti del giornalismo dell’epoca, scrisse: «Mi pare che ci siano gli elementi per trovarlo colpevole: non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni. Il personaggio non mi è mai piaciuto. E non mi piaceva il suo Portobello: mi innervosiva il pappagallo che non parlava mai e lui che parlava troppo».

La presunzione di colpevolezza, perché nessun arrestato può essere innocente, condita dall’antipatia personale e dalla vocazione ad anteporre il giudizio privato a quello giudiziario. Un germe che inquina ancora oggi, seppure anche la storia di Tortora e la coraggiosa battaglia di testimonianza portata avanti dalla sua famiglia ha prodotto qualche anticorpo in più.

«Ero liberale perché ho studiato, sono radicale perché ho capito», disse Tortora nel 1984, da candidato del partito. Capito cosa? «Che occorreva un uomo chiamato Tortora, esibito in catene come un trofeo di caccia, in un osceno carosello televisivo» per mostrare che «oggi c’è la manetta facile in un paese dove tutto è diventato facile, tranne l’onestà».

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