«Il sistema penitenziario va riformato», sono state le parole della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in visita insieme al presidente del consiglio, Mario Draghi, al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una necessità, quella della riforma, che rischia di segnare l’ennesima rottura con il Movimento Cinque Stelle dopo il ddl penale e l’archiviazione della norma Bonafede sulla prescrizione.

La riforma dell’ordinamento penitenziario – o meglio il suo accantonamento – è stato uno dei primi stop imposti dall’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Quando si insediò nel 2018, una delle prime iniziative fu quella di azzerare il decreto legislativo definito «salva-ladri» scritto dal precedente governo e frutto del lavoro della commissione Giostra e soprattutto di un lungo studio nell’ambito degli Stati generali del carcere. Ad essere cancellate, in particolare, sono state la possibilità di ricorso a pene alternative e l’eliminazione degli automatismi nell’esecuzione della condanna con conseguente maggiore discrezionalità per la magistratura di sorveglianza per decidere caso per caso il percorso del detenuto.

Oggi, invece, Cartabia vorrebbe riprendere proprio il lavoro dell’ex ministro Andrea Orlando e riformare la legge Gozzini del 1975, ovvero la legge attualmente in vigore sull’ordinamento penitenziario.Un’iniziativa che richiederà tempo, energie e soprattutto una convergenza politica tutta da trovare, ma che rientra tra i temi certamente cari alla ministra.

La riforma penale

Una serie di novità che riguardano le pene, tuttavia, sono già contenute negli emendamenti del governo al ddl penale, oggetto proprio del braccio di ferro non ancora concluso con i Cinque stelle e che dovrebbe approdare alla Camera il 23 luglio.

Nella delega al governo, infatti, è prevista la riforma della disciplina delle sanzioni sostitutive applicabili dal giudice di cognizione al posto della pena detentiva. Si tratta di un cambiamento sostanziale, perchè si sposta al giudice del processo l’individuazione delle sanzioni diverse dal carcere, che quindi vengono applicate al condannato immediatamente con la sentenza. Inoltre, vengono abolite la semidetenzione e la libertà controllata; si aumenta da sei mesi a un anno di pena il limite di pena detentiva sostituibile con la pena pecuniaria; si prevede che la pena fino a tre anni possa essere sostituita con il lavoro di pubblica utilità; si prevede che la pena fino a quattro anni possa essere sostituita con la semilibertà o con la detenzione domiciliare.

Tutte misure che il giudice sceglierà di applicare in sostituzione della detenzione, se ritiene che favoriscano la rieducazione del condannato e se non riscontra pericolo di recidiva.Inoltre, si interviene sulla disciplina della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevedendo che si dia rilievo alla riparazione del danno e si codifichino le ipotesi in cui l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità.Infine, dovrebbe venire estesa l’applicabilità della messa alla prova dell’imputato, allargando il novero di reati tra quelli con pena detentiva non superiore ai sei anni.

Il Pnrr inoltre, prevede la spesa di 123,9 milioni di euro in quattro anni per la costruzione di padiglioni da 120 posti ciascuno e il miglioramento degli spazi di 8 strutture penitenziarie: Santa Maria Capua Vetere; Rovigo; Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia, Ferrara e Reggio Calabria. Per il compito di progettazione architettonica e valutazione, in gennaio era stata nominata una Commissione per l'architettura penitenziaria, presieduta dall'architetto Luca Zevi.

Quello attualmente previsto, comunque, non è ancora un piano omogeneo che risponde in maniera coordinata ai problemi delle carceri che la stessa Cartabia ha elencato nella sua visita a Santa Maria Capua Vetere: sovraffollamento carcerario, rieducazione dei detenuti, misure alternative, formazione e assunzioni per la polizia penitenziaria e videosorveglianza, definite «questioni irrisolte che hanno una data antica».

La situazione attuale

I grandi irrisolti del sistema detentivo italiano, più volte condannato dalla corte di giustizia europea, infatti, sono diventati problemi endemici e sono stati enfatizzati dalla pandemia.

A fine giugno 2021 i detenuti sono 53.637, per una capienza calcolata secondo parametri standard di circa 50 mila posti. Il sovraffollamento è diminuito in modo consistente con il Covid rispetto ai dati del febbraio 2020, in cui i reclusi erano circa 61 mila.

Tra i dati forniti dal ministero della Giustizia da mettere in evidenza per valutare il tipo di popolazione carceraria, però, alcuni sono particolarmente significativi. A fine maggio 2021, 16.362 detenuti pari al 30 per cento del totale sono ancora in attesa di una sentenza definitiva e dunque sono ancora formalmente imputati.

Più di 15 mila persone, inoltre, sono detenute con un residuo di pena da scontare di meno di tre anni e che dunque potrebbero avere accesso a misure alternative ma non lo fanno, inoltre, «ben 1.212 sono quelle che sono state condannate a una pena inferiore a un anno», ha detto il garante dei detenuti Mauro Palma nella sua relazione annuale al parlamento sullo stato delle carceri.

Tra gli strumenti rieducativi, l’ordinamento prevede la possibilità di lavorare durante gli anni in cui si sconta la pena, con la finalità di costruirsi le basi per un reinserimento sociale. I dati disponibili risalgono al 2020 e indicano come lavoratori circa 17 mila detenuti. Attenzione, però: di questi solo 2 mila lavorano per imprese e cooperative sociali, gli altri invece sono dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria. Questo significa una cosa sola: chi lavora per il carcere, svolgendo attività di addetti alle pulizie, alla lavanderia e alla cucina, o alla manutenzione in cambio di circa 150-200 euro al mese (che vengono caricati sul conto interno all’istituto e servono per pagare il cibo extra rispetto alla mensa o le sigarette) non impara certo un mestiere che poi potrebbe permettergli di sopravvivere fuori dall’istituto detentivo senza ricominciare a delinquere. Invece, solo un numero irrisorio di reclusi fa un lavoro vero, con una formazione pregressa, un contratto e un vero e uno stipendio.

Infine, altro elemento drammatico è lo stato dei luoghi detentivi. L’associazione Antigone, nel suo rapporto del 2021 sulle condizioni dei luoghi di detenzione, ha visitato 44 istituti su 190 e ha raccolto una serie di dati: la metà delle carceri è extrarbana e l’11 per cento non ha mezzi pubblici che permettono di raggiungerla, rendendo difficilissime le visite dei parenti, anche perchè nel 52 per cento dei casi non è previsto il colloquio visivo la domenica. Inoltre nel 9 per cento delle celle non c’è il riscaldamento, nel 30 per cento non è garantita l’acqua calda e nel 48 per cento non c’è la doccia. Infine, solo il 22 per cento dei detenuti fa più di quattro ore d’aria al giorno e solo nel 23 per cento dei casi il magistrato di sorveglianza entra almeno una volta al mese nel carcere.

Nel 2020, infine, l’anno è stato drammatico per il tasso di suicidi, che è arrivato a raggiungere gli 11 ogni 10 mila persone mediamente presenti, con prevalenza nella fascia di età tra i 36 e i 40 anni: erano quasi vent’anni che il numero non era così alto. Segno che il covid, nonostante la diminuzione della popolazione detenuta, ha reso ancora più insopportabile la detenzione a causa di un distacco ancora più netto dal mondo esterno e dalle famiglie.

Tutti numeri che mostrano quanto sia necessario ripensare il carcere, non solo sulla scia dell’indignazione per le violenze di Santa Maria Capua Vetere.

 

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