All’indomani dell'ennesimo caso di processo mediatico, quello dell’uxoricida di Brescia, Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’università di Bologna, analizza la deriva mediatica dei processi e le possibili soluzioni.«La giustizia mediatica è uno specchio che deforma la realtà e nuoce a tutti: al giudice che decide, all'imputato e alla difesa», spiega Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’università di Bologna, sulla deriva mediatica dei processi e sulle possibili soluzioni.

Il caso di Brescia è solo l’ultimo in ordine di tempo: la corte d’assise ha riconosciuto il vizio di mente per un uxoricida, ma per le cronache l’uomo è stato assolto grazie alla scriminante della gelosia. Di chi è colpa questo travisamento?

Temo sia una sinergia di fattori, che negli ultimi anni hanno interagito con intensità crescente: disinformazione, giustizialismo dilagante, ossessione punitivista, crescente sfiducia nella magistratura e subcultura del processo mediatico, un processo parallelo celebrato - in modo veloce e frugale – su quel “palcoscenico catodico di verità di pronto consumo” – che sono i media. Ma la giustizia mediatica e uno specchio che non riflette la realtà, ma la deforma, pesantemente e spesso irreversibilmente. 

Successivamente è arrivata notizia, poi smentita da parte del ministero, dell’invio di ispettori in tribunale anche se non è ancora stata depositata la sentenza. Come si è generato questo cortocircuito?

E’ un ulteriore epifenomeno di questo contesto culturale degenerato. La premessa è che il giudice che prende una decisione ritenuta “troppo favorevole“ per l’imputato sbaglia, e quindi la sua attività va verificata, “revisionata”. Nel caso concreto la notizia dell’iniziativa è stata smentita, ma in altri casi recenti – come le iniziative disciplinari in occasione di “scarcerazioni” (che in realtà erano decisioni di detenzione domiciliare) durante l’emergenza Covid – la notizia era vera. Un simile cortocircuito è molto grave: e si comprende la preoccupazione espressa da Magistratura democratica, perché in gioco ci sono davvero l’indipendenza della magistratura e l’autonomia della giurisdizione.

Lei dice che una decisione “troppo favorevole per l’imputato” viene percepita come sbagliata. Il giustizialismo è diventato sempre più un tratto culturale del paese?

Temo di sì, nostro malgrado: e si tratta di una subcultura diffusa, che trova una straordinaria cassa di risonanza nei media. Del resto, la prima vittima del processo mediatico è la presunzione di innocenza, intesa come regola di trattamento: e l’opzione costituzionale che impone di considerare l’imputato innocente sino a condanna definitiva è una opzione culturale, oltre che un presidio tecnico a garanzia dell’individuo contro il rischio sempre vivo di errori giudiziari, e - dato su ci si riflette troppo poco - un presidio per la stessa giurisdizione.
Ci sono altre vittime, oltre all’imputato che diventa colpevole fino a prova contraria?

La seconda vittima del processo mediatico è proprio la magistratura giudicante, che subisce una espropriazione della propria giurisdizione - come ha scritto acutamente il Presidente del Tribunale di Torino, Massimo Terzi - e vede ridotte le proprie “sentenze” a semplici “opinioni”, che peraltro arrivano dopo una presunta “verità” già anticipata e conclamata nel proscenio  dei media, con i format più disparati: dall’infotainment, al docufiction, al vero e proprio talk show. Il giudice che non si conformi a questa verità preconfezionata è destinato a soccombere nel “baccanale delle opinioni”.

Cioè rischia di essere il giudice a doversi omologare alla sentenza dei media?

Una volta rovesciata la presunzione di innocenza e presentato l’indagato come colpevole - come fanno i media - , la stessa giurisdizione subisce una mortificazione, perché il giudice deve dire da che parte sta, se dalla parte della pubblica opinione e della pur becera vox populi oppure, all’opposto, dalla parte di un imputato che ormai si presume colpevole. E se sceglierà la seconda opzione, con ogni probabilità verrà ritenuto corresponsabile, se non protagonista, di un diniego di giustizia.

Questa deriva mediatica è un fenomeno arginabile?

Il problema è culturale, e senza una palingenesi culturale ogni misura rischierebbe di avere effetti puramente sintomatici. Tuttavia l’urgenza di predisporre rimedi si fa più stringente per chi patisce la “catabasi mediatica”, una discesa agli inferi che spesso sfigura vite professionali, carriere politiche, storie familiari, come recenti vicende testimoniano dolorosamente.

E’ pensabile introdurre dei meccanismi di garanzia?

Si può forse ipotizzare qualche misura rimediale, consapevoli però che queste non rimuovono il problema.  Provo a ipotizzare, riprendendo una proposta già avanzata tempo fa: chi, da imputato, ha subito un processo mediatico, dovrebbe essere introdotto un contrappeso adeguato, ossia un meccanismo di risarcimento o indennizzo se viene poi riconosciuto innocente, giacché ha subito una condanna ingiusta - ed una gravissima lesione della reputazione e della stessa dignità - sulla platea dei media. Ma anche per l’imputato poi giudicato colpevole dovrebbe essere preciso un meccanismo di riduzione della sanzione, perché la spettacolarizzazione del processo ha una forte connotazione afflittiva che deve essere scomputata dalla pena inflitta, che altrimenti sarebbe duplicata con violazione del canone di proporzionalità. 

Quanto tutto questo è colpa delle fughe di notizie sulla stampa e come si coniuga il diritto di cronaca con il presidio della giurisdizione?

Il diritto di cronaca è una proiezione della libertà di espressione, e questa libertà ha un valore primordiale per una democrazia. Ma l’esercizio della libertà di espressione, come recita l’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, “comporta doveri e responsabilità”, che sono certamente in capo ai professionisti dell’informazione giudiziaria. A questo livello, anzitutto, dovrebbe misurarsi - anche e soprattutto in sede deontologica - la cultura del giornalista, la sua sensibilità e il rispetto delle garanzie costituzionali, in primis la presunzione di innocenza, come accennato, che oggi è mortificata da una informazione sensazionalistica e colpevolista, con effetti devastanti anche sui processi.

Questo meccanismo esercita pressione anche sui giudici, che rischiano di essere influenzati?

Difficile negare, francamente, che i giudici siano influenzati, più o meno consapevolmente. La Corte di Cassazione in diverse occasioni ha sostenuto che i giudici sarebbero protetti da influenze in ragione del loro corredo professionale, che li immunizzerebbe da condizionamenti, e in ragione di una progressiva assuefazione che li avrebbe ormai immunizzati gradualmente.

Secondo lei è un argomento convincente?

Mi pare che quella della Cassazione sia una posizione che pecca di astrattismo ed idealismo, e non si confronta affatto  con la attuale magnitudo del problema, e con i devastanti effetti di diffusività che caratterizzano gli odierni mezzi di informazione. Anche perché i giudici non sono gli unici a rischiare condizionamenti.

Chi altro viene influenzato?

Oltre al giudice, che spesso subisce condizionamenti inconsci, anche un teste non sarà più in grado di distinguere quel che ha visto direttamente o quel che ha appreso dai media, da cui viene inconsapevolmente subornato; lo stesso pubblico ministero rischia di essere fuorviato da piste investigative anticipate dai media, o pregiudicato da fughe di notizie nello svolgimento delle indagini. Per molte ragioni, dunque, un processo che ha una elevata attenzione mediatica è estremamente complesso anche per la difesa, che deve sempre impegnarsi anche a contrastare e correggere  le deformazioni della realtà che il processo ha subito sui media o sui social.
 

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