Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Finalmente lo stabilimento fu completo. Ed era veramente un orgoglio della nazione, uno dei più grandi complessi petrolchimici di tutta l’Europa. Era in condizione di produrre enormi quantità di elementi preziosi per ogni settore del mondo moderno; quasi due milioni di tonnellate di olio combustibile, un milione di tonnellate di gasolio, mezzo milione di tonnellate di benzina, idrocarburi aromatici, gas liquefacibili, ammoniaca, acido solforico, polietilene, cocke di petrolio e, con la sua grandiosa centrale elettrica, un miliardo di kilowattori ogni anno.

Guardiamolo dall’alto del monte Calvario (che nome sinistro per una collina che si estende sul mare, che nome carico di presagio!). È veramente l’orgoglio della nazione: ordinato, solenne, balenante. Notte e giorno non si ferma mai. Tremila persone vi lavorano divisi in tre turni a ciclo continuo. Gli operai guadagnano dalle settanta alle centomila lire al mese, i periti tecnici circa centottantamila lire, e i tecnici dirigenti dalle trecentomila lire in su. Gli operai sono quasi tutti siciliani (per legge regionale il personale deve essere dell’isola fino al 95 per cento); i tecnici vengono da ogni parte d’Italia.

Per i suoi dipendenti e per le loro famiglie lo stabilimento ha costruito un villaggio lungo la spiaggia di Marchitelle, a cinque chilometri di distanza, una specie di minuscola città dove ogni cosa, le abitazioni, la scuola, il teatro, i magazzini, il bar, i negozi, le strade, la segnaletica, il ristorante, la chiesa, le prediche del sacerdote, il sorriso delle monache, l’ordine delle aiuole e dei fiori, il timbro delle campane, l’ esposizione delle finestre al sole, i parcheggi, le palestre, i campi di gioco, il verde, lo spazio, le aule, ogni cosa o servizio di questa minuscola società funziona perfettamente, ininterrottamente come se fossero ruote, ingranaggi, pompe, ciminiere, pipeline e silos della grande fabbrica.

Tutto lucido, pulito, studiato, razionale, efficiente, modernissimo, coerente, puntuale: lì dentro vive tutta questa parte di popolazione che interessa lo stabilimento, dalla famiglia del direttore generale fino all’ultimo degli operai, un piccolo campione di umanità finalmente liberato dal bisogno, dai mali atroci del Sud: la disoccupazione, la sporcizia, la violenza, l’ignoranza, le malattie. Abbiamo incontrato, in un viale di questa minuscola miracolosa città, otto bambini che giocavano: con la riga ordinata ai capelli, i vestitini puliti, gli occhi allegri, le scarpe lucide, le camiciole candide. Erano figli di dirigenti, di operai, di meccanici, di camionisti, ma sembravano tutti eguali, dello stesso ceto, parlavano alla stessa maniera, con una strana piacevole cadenza come fossero veneti o milanesi, e invece venivano esattamente da Caltanisetta, Palermo, Valguarnera, Enna, Agrigento. «Bambini, cosa vi manca per essere felici?» «Niente! - risposero - Abbiamo tutto quello che vogliamo!» «Ma non vorreste abitare in una grande città?». Risero stupiti: «È perchè? Qui abbiamo il campo di calcio, i campi di tennis, la spiaggia vicino alla casa, la prateria per giocare, la scuola con l’aria condizionata, la palestra. Siamo cinquecento bambini...»

Ci condussero a visitare la palestra al centro di un giardino, che a sua volta è al centro di una splendida scuola tutta di plastica, di alluminio, di fiori, di marmi. Una suora li accolse sull’uscio e li rimproverò con dolcezza: «Bambini, le pistole qui dentro?» Si liberarono docilmente delle pistole di latta, dei cinturoni da cowboy e ci guidarono senza stupirsi di niente. Le porte scorrevano su rotaie invisibili, silenziose, le immense finestre si schiudevano delicatamente al premere di un solo bottone: è probabile che non esista alcun altro luogo in Sicilia dove il rispetto della condizione umana sia così integrale e costante e addirittura automatico. Pensai che a sessanta chilometri di distanza i bambini di Palma di Montechiaro erano anch’essi siciliani, e in quello stesso momento giocavano con i cani, avevano le mosche sulle palpebre e i piedi sudici dello sterco che cola in tutte le strade. Pensai che molti di quei bambini non arriveranno a vent’anni, e guardavo questi bambini di Gela, educati, felici, che si arrampicavano e giocavano sugli attrezzi di una palestra dove anche la luce, l’aria e il sole erano regolati secondo il risultato di perfetti studi. L’industria li curava come fossero continuamente convalescenti. L’industria aveva veramente redenta quella piccola parte di umanità. Ma erano tremila soltanto.

Dietro il villaggio di Marchitelle, a cinque chilometri di distanza, sulla cima della collina c’era Gela intatta, logora, polverosa, con tutte le sue antiche sciagure umane. Intatta ed isolata, come se quel prodigio industriale non fosse affare suo e non la riguardasse più. L’impressione è questa appunto, quasi drammatica, tanto è chiara, spesso espressa con violenza: che la grande iniziativa industriale non basta da sola ad operare una rivoluzione sociale, a salvare una popolazione dal suo stato di miseria. Ha salvato solo una piccola parte di loro, e nemmeno di Gela, ma di Caltanisetta, Enna, Palermo, Siracusa; i più esperti, raccomandati, solerti, pazienti, li ha rigidamente educati, rifatti nelle abitudini, ha creato addirittura una città piccola e perfettissima nella quale vivessero senza contagi e passabilmente felici. Ma non ha potuto accogliere il resto di quella umanità.

Essa sembra abbandonata al suo destino, tanto irrevocabile appare la frattura tra il nuovo e l’antico, e morte le speranze che qualcosa possa essere ancora fatta per coloro che sono rimasti prigionieri del loro stato. L’industria aveva bisogno di tremila uomini e se li è presi, ne ha fatto tremila cittadini pressoché esemplari non solo nel loro reddito, nella loro salute, ma persino nel costume.

Ma tutt’intorno i problemi del Sud sono rimasti incontaminati. Un errore c’è stato, dobbiamo capire quale e da quale parte, e perché nemmeno l’industria sia riuscita quaggiù a redimere i mali del Sud. Ora lasciamo questo opificio grandioso dove ogni macchina funziona perfettamente, questo villaggio mirabile dove ogni uomo è messo in condizione di produrre e vivere, perfettamente protetto ed oleato come la parte di una macchina.

Andiamo lontano, verso Gela, a scoprire da quale parte sia l’illusione, verso una città dove ogni individuo funziona per conto suo, orgogliosamente rassegnato a lottare. E salendo per la strada, già ogni cosa cambia, ci sembra di andare verso un mondo che non è distante solo cinque o sei chilometri, ma è sull’altra faccia della terra.

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