Il 20 settembre 1870 i bersaglieri e i fanti del generale Cadorna sfondarono la michelangiolesca Porta Pia e occuparono la città di Roma, sfrattando il papa dal palazzo del Quirinale e costringendolo a ritirarsi entro la cerchia delle mura leonine.

L’ordine del cannoneggiamento era stato dato dall’ebreo Giacomo Segre, immune alla scomunica emanata da Pio IX verso i cattolici che avessero osato aprire il fuoco contro l’ultima enclave dello stato pontificio nel regno d’Italia.

Cadeva così il più antico e retrogrado stato europeo, al quale fin dal 1831 le Cinque Potenze (Austria, Russia, Prussia, Francia e Inghilterra) avevano intimato, in un memorandum congiunto, di ammodernarsi per non finire nel cestino dei rifiuti della storia.

Ancora nel 1864, invece, Pio IX emanava testardamente il famigerato Sillabo, che elencava gli ottanta «principali errori del nostro tempo», e il 18 luglio 1870 il Concilio Vaticano I proclamava il dogma dell’infallibilità pontificia.

Dopo la conquista della capitale, il 13 maggio 1871 il parlamento italiano promulgò la legge delle Guarentigie, che assicurava libertà di culto ai cattolici, e assegnava al papa il Vaticano, il Laterano e il palazzo di Castelgandolfo, oltre a una cospicua somma annua in denaro, all’insegna del motto di Cavour: «Libera chiesa in libero stato».

Pio IX rifiutò però questo atto unilaterale, e in tutta risposta emanò nel 1874 il Non expedit, che proibiva ai cattolici la partecipazione alla vita politica italiana.

La formale accettazione dell’enclave vaticana da parte dello stato italiano fu un atto generoso, ma inconsulto. La presenza del papa nei palazzi Apostolici a Roma costituiva infatti allora, e continua a costituire ora, un anacronismo analogo a quello che si avrebbe se i discendenti dell’ultimo imperatore cinese continuassero a vivere nella Città proibita a Pechino, o il Dalai Lama nel Potala a Lhasa, mantenendo i propri poteri politici e religiosi in due staterelli indipendenti all’interno della Cina e del Tibet moderni.

Se il paragone può sembrare bizzarro, bisogna ricordare che il Vaticano ha oggi pochi analoghi al mondo, quanto ad anacronismo medievale. Non rimangono infatti altre ierocrazie governate da una casta sacerdotale, come nell’Egitto faraonico o nel Tibet lamaista. E resistono soltanto altre cinque monarchie assolute, in cui il capo di stato è l’unico titolare dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario: i regni dell’Arabia Saudita e dello Swaziland, i sultanati del Brunei e dell’Oman, e gli Emirati Arabi Uniti.

Come se non bastasse, il Vaticano è una monarchia di tipo patrimoniale, in cui non esiste separazione fra il patrimonio dello stato e quello del capo di stato. Il papa possiede dunque personalmente le ricchezze del Vaticano, e in quanto tale è di gran lunga l’uomo più ricco del mondo: se volesse effettivamente una «Chiesa povera», come dichiara a parole Francesco, potrebbe istituirla istantaneamente nei fatti con una semplice firma.

Naturalmente, i problemi del Vaticano sarebbero solo interni, se esso non interagisse e non interferisse esternamente con la vita politica, economica, sociale e culturale del nostro paese, come invece avviene dal 1929. Fino ad allora, le relazioni fra Italia e Vaticano erano rimaste congelate a causa dello sdegnoso rifiuto papale a collaborare in qualunque maniera con il governo italiano: in particolare, a usufruire del capitale fornitogli dalla legge delle Guarentigie, che andò semplicemente accumulandosi in banca.

Nei sessant’anni successivi alla presa di Porta Pia l’Italia poté dunque vivere il suo unico periodo di relativa laicità, di cui rimane testimonianza nella statua a Giordano Bruno inaugurata il 9 giugno 1889, giorno di Pentecoste (!), sul luogo del rogo acceso dall’Inquisizione. La sua emblematica storia si legge in Campo dei Fiori (Einaudi, 2015) di Massimo Bucciantini, che narra le vicissitudini incontrate per erigere il monumento: non ultima, la vuota minaccia di Leone XIII di andare in esilio se il progetto, proposto nel 1876 da un comitato universitario internazionale, fosse stato realizzato.

L’impianto culturale fascista

Ma l’11 febbraio 1929 il fascismo barattò la laicità dello stato con il sostegno della chiesa, firmando un trattato, una convenzione finanziaria e un concordato. Il trattato riconobbe la sovranità della Santa sede e l’indipendenza del Vaticano.

La Convenzione elargì una ricompensa per i danni subiti dopo la presa di Porta Pia, pari a circa cinque miliardi di euro attuali. E il Concordato proclamò il cattolicesimo religione di stato, impose il suo insegnamento in tutte le scuole e acconsentì a rendere le leggi matrimoniali conformi ai dettami della Chiesa.

Il 14 febbraio 1929 Pio XI proclamò Mussolini «uomo della Provvidenza», ma in curia molti (e fra questi Eugenio Pacelli) avrebbero voluto un abbattimento della statua a Giordano Bruno, oltre che «una revisione storica e un vero processo al Risorgimento», come annotò preoccupato Vittorio Emanuele II nel proprio diario. Fu Mussolini, fascista ma ateo, a dichiarare invece il 13 maggio 1929, nel discorso alla Camera sulla ratifica dei Patti Lateranensi: «La statua di Giordano Bruno, malinconica come il destino di questo frate, resterà dov’è».

Da abbattere nella repubblica sarebbe stato l’impianto culturale del fascismo, che invece persiste ancora, dopo settantacinque anni, in almeno tre ordinamenti fondamentali, sia pure con modifiche più o meno profonde: il codice Rocco nel diritto, la riforma Gentile nella scuola e il Concordato nei rapporti fra stato e chiesa. La formazione classica e umanistica, in particolare, che in una circolare del 1923 Mussolini definì trionfalmente «la più fascista delle riforme», continua imperterrita a essere proposta come mezzo di formazione privilegiato delle classi dirigenti, e ne costituiscono parti integranti e complementari l’insegnamento della religione in tutte le scuole, e del latino nel liceo classico (e in quello scientifico all’antica).

Mentre però gli impianti del codice Rocco e della riforma Gentile potrebbero essere smantellati e sostituiti con ordinamenti giuridici e scolastici moderni, se solo ci fossero la sensibilità culturale e la volontà politica adeguate, il Concordato costituisce una macina da mulino appesa al collo della repubblica, a causa dell’articolo 7 della Costituzione, che recita: «Lo stato e la chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, e i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi».

Nessun altro articolo fu tanto discusso nei lavori dell’Assemblea costituente, e nessun altro è più dissonante con l’impianto della Costituzione, come spiega il costituzionalista Michele Ainis in Chiesa padrona (Garzanti, 2009).

L’articolo 7 fu approvato con il voto determinante dei comunisti, nel primo di una lunga serie di tradimenti ideologici perpetrati dalla sinistra da allora fino a oggi, e l’imbarazzo dell’intera Costituente fu sottolineato dalla totale mancanza di applausi dopo il voto, persino da parte dei democristiani.

Molto più dell’8 per mille

Nell’Italia repubblicana il vessillo della laicità è stato sostanzialmente portato soltanto dai piccoli partiti Liberale, Repubblicano e Radicale.

Neppure le cariche istituzionali hanno avuto il coraggio e la forza di mantenere la schiena dritta di fronte alla chiesa e al Vaticano: presidenti della repubblica come Giovanni Gronchi si sono inginocchiati in pubblico davanti al papa, o l’hanno ricevuto in frac come Napolitano, presidenti della Camera come Oscar Luigi Scalfaro e Pier Ferdinando Casini hanno invocato la Madonna dai loro scranni, presidenti del Consiglio come Giulio Andreotti sono andati per mezzo secolo a rapporto in Vaticano, Giovanni Paolo II è stato invitato a parlare in parlamento, e l’11 febbraio di ogni anno le alte cariche dello stato e del Vaticano commemorano festose insieme la firma dei Patti Lateranensi nell’ambasciata d’Italia presso la Santa sede, spesso con la presenza del presidente della Repubblica, ma mai del papa.

Naturalmente, dietro la forma sta la sostanza: prima di tutto, quella economica. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, devoto di San Gennaro, ha dichiarato nel 2018: «Pensate che solo la Camera dei deputati ci costa ogni anno un miliardo di euro», ma ha dimenticato di aggiungere: «Esattamente come il solo 8 per mille alla chiesa». Perché i miliardi che lo stato italiano sborsa all’altrui casta religiosa sono pari a quelli che sborsa alla propria casta politica, benché tutti gli strali populisti si concentrino sulla seconda, e nessuno sulla prima.

I conti per difetto li ha fatti Curzio Maltese ne La questua (Feltrinelli, 2008), cercando di dipanare una matassa patrimoniale intessuta di chiese, oratori, asili, scuole, università, alberghi, ristoranti, ospizi e ospedali, per un totale pari al 20 per cento del patrimonio immobiliare italiano, e al 25 per cento di quello romano.

Queste attività sono di norma esenti da Imu e dalle tasse di compravendita, e molte vengono finanziate in varia misura dallo stato, mentre i profitti vanno interamente alla chiesa.

Per fare un esempio eclatante, solo gli insegnanti di religione, scelti dalla chiesa e pagati dallo stato, ci costano un miliardo di euro l’anno. E costituiscono una vera e propria casta parassitaria, che non ha programmi ministeriali da seguire, compiti da correggere e interrogazioni da fare, ma partecipa ai consigli di classe, contribuisce alla formulazione dei giudizi sugli studenti e può fare carriera scolastica, arrivando addirittura alla dirigenza. In altre parole, hanno i diritti ma non i doveri degli insegnanti, grazie alla loro immissione in ruolo in massa a partire dai governi Berlusconi e Prodi.

Uno stato sedicente laico che, oltre a mantenere i preti e finanziare l’insegnamento della religione, paga persino l’acqua al Vaticano, si accolla le spese dei frenetici viaggi del papa, organizza il proprio calendario civile sulla base delle festività cattoliche e permette che la chiesa intervenga nei propri affari interni, disonora la memoria dell’impresa di Porta Pia, e necessita di una metaforica quarta guerra di indipendenza che la liberi finalmente da quello che Benedetto Croce definì sprezzantemente il «giogo pretesco».

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