Confesso di aver avuto qualche perplessità prima di commentare, come poi ho fatto domenica scorsa, la mostra di Julius Evola al Mart di Rovereto (Tn). La mostra si era inaugurata il 15 maggio ed era caduta pressoché nel silenzio. Sapevo che le pagine che le sarebbero state dedicate da Domani, vista la natura del personaggio – antisemita, razzista e un punto di riferimento per le destre estreme – avrebbero potuto innescare un carosello di banalizzazioni, mistificazioni e libere interpretazioni tirate per i capelli. Ed è quello che è successo.

Perché allora abbiamo dedicato egualmente due pagine alla mostra? Lo abbiamo fatto perché se è vero che le mistificazioni e i discorsi da bar viaggiano più veloci delle analisi rigorose, lo è altrettanto che da qualche parte occorre lasciare delle tracce delle proprie convinzioni, criticamente motivate, anche quando si va incontro a qualche rischio.

Già nelle prime righe del mio articolo invitavo i lettori a visitare l’esposizione perché, spiegavo, i dipinti vanno visti dal vero: è solo così che ci si può rendere conto di quanto i quadri di Evola poco brillino per abilità tecnica e per originalità. Ho anche scritto di essere andato a Rovereto perché non avevo mai visto dal vero dei dipinti di Evola e ho chiarito che è basandomi su quelli esposti che ho espresso il mio giudizio. Studiando il suo lavoro di artista ho rafforzato la mia convinzione che Evola non è un protagonista della storia del modernismo italiano. In contatto con il movimento Dada transnazionale, movimento dalla vita breve, ha rappresentato un inesistente Dada italiano.

La data di pubblicazione

In seguito alle polemiche sollevate dai nostri articoli, un amico collezionista mi ha fatto poi notare che le opere in mostra e riprodotte in catalogo non hanno una storia che certifichi, come accade in tutti i cataloghi di esposizioni di autori storici, la loro presenza in mostre negli anni della loro datazione.

Basta prendere in mano un qualunque catalogo di una mostra museale di un artista come Modigliani, De Chirico, Savinio o Casorati – di chi volete, insomma – per verificare quanta importanza si dia alla prima data di pubblicazione di un’opera o alla registrazione della sua partecipazione a una mostra del periodo in cui è stata realizzata. Questo anche per evitare che siano presentati come “originali” eventuali repliche tarde, come è avvenuto, per esempio, con alcuni de Chirico metafisici fatti negli anni Cinquanta-Sessanta. La questione ha anche forti ricadute sulle quotazioni delle opere.

Se l’emarginazione di Evola inizia nel Dopoguerra, perché la maggior parte dei quadri del periodo 1916-1921 presentati al Mart non sono stati esposti negli anni in cui Evola non avrebbe avuto nessuna difficoltà a partecipare a mostre? Come mai la maggior parte di questi dipinti sono stati presentati solo in mostre recenti? Tutto questo mentre nei testi critici in catalogo si punta sulla pubblicazione di quanti più documenti possibile per dimostrare il ruolo di Evola nel primo modernismo italiano. Infine: sono sufficienti 54 opere (tenendo fuori dalla conta i tre imbarazzanti nudi di donna), di cui 11 sono repliche dichiarate, a far percepire come rigorosa l’esposizione del Mart?

Ad alimentare le mie perplessità – non solo le mie, a onor del vero – è stato Giampiero Mughini, che su Dagospia ha raccontato: «Nella casa in cui l’Evola paralizzato alle gambe trascorse gli ultimi venti e passa anni della sua vita ci sono stato. Alle pareti di quel piccolo appartamento c’erano i quadri dadaisti di Evola. Bellissimi. Solo che erano delle copie. Era successo che nei primi anni Cinquanta Achille Perilli portasse a casa di Evola il gallerista e collezionista ebreo milanese Arturo Schwarz, quello che nel frattempo era divenuto il più grande esperto di dadaismo al mondo. È stato Perilli a raccontarmelo. Schwarz ci mise meno di un minuto a chiedere a Evola che glieli vendesse tutti. Evola che non aveva di che vivere disse di sì, solo che se ne fece delle copie per averne un ricordo».

Non occorre essere un esperto d’arte per capire quale e quanta attenzione uno storico serio, un filologo, debba mettere nell’allestire la mostra di un artista che ha realizzato copie tarde dei suoi stessi dipinti e che potrebbe averli retrodatati. Alla luce di tutto questo non si capisce quali siano stati i criteri di scelta delle opere esposte. E mi viene anche il dubbio che, se mai dovessi trovarmi a vedere un’altra mostra di Evola allestita con opere scelte con rigore scientifico, il mio giudizio potrebbe anche essere diverso (sulle opere, non su Evola filosofo).

Il peso della politica

Ma torniamo alle nostre due pagine di domenica scorsa: nel suo articolo Elio Cappuccio rimarcava, come ho fatto anche io del resto, che non c’è stata, né c’è damnatio memoriae nei confronti di Evola, ma che semplicemente Evola non aveva lo stesso potenziale di artisti dalla storia controversa che hanno continuato a essere esposti nei musei.

Entrambi gli articoli, poi, sottolineavano come le opinioni politiche di un autore non devono in nessun modo interferire nelle nostre valutazioni riguardo al valore estetico dell’opera. Io stesso sono un estimatore di Emil Nolde, Maurice Vlaminck, André Derain o Mario Sironi, che sono stati nazisti, collaborazionisti o fascisti, e sulle cui vicende (ma anche su altre simili) mi sono ampiamente soffermato nel mio libro Il Bello, il buono e il cattivo / Come la politica ha condizionato la cultura negli ultimi cento anni, edito da Ponte alle Grazie nel 1994. Scriverlo chiaramente e riportare degli esempi però non è bastato.

Il 6 luglio il quotidiano Libero ha titolato: “Allarme: è fascista, non merita una mostra”. Sottotitolo: «La sinistra insorge. Eppure anche critici progressisti hanno apprezzato il pittore-filosofo. E nessuno ha mai protestato per le personali di artisti comunisti». Eccola la parola chiave: “comunista”. Luca Beatrice ha ricordato nel suo articolo che la calma piatta attorno alla mostra si è improvvisamente trasformata in tempesta sui quotidiani «grazie al ruolo attivo (e divisivo) della critica militante, che tanto ci manca, così addomesticata sul tutto va sempre bene. Cominciano Elio Cappuccio e Demetrio Paparoni su Domani». E ha aggiunto: «Questa la loro posizione: [Evola] non è solo un fascista ma soprattutto un pittore mediocre che non merita di stare in un museo importante».

Eccolo il tormentone che mi aspettavo e che ha rimbalzato dalla carta stampata alle varie chat frequentate da amanti dell’arte: si vuole censurare Evola, cioè la cultura cara alla destra radicale. Ora, gradirei sapere da dove Libero abbia dedotto che il nostro fosse un invito a censurare Evola, sia come pittore sia come ideologo. Scrive inoltre Beatrice: «Dicono che i tempi sono cambiati, mica tanto se ci si scaglia ancora contro un pittore della vecchia avanguardia mentre gli eredi del bolscevismo minacciano la pace in Europa».

In quanto agli “eredi del bolscevismo” che tanto lo spaventano, in proposito Cappuccio ha sottolineato quanto care siano ad Aleksandr Dugin, l’ideologo di Putin, le figura di Evola e di Guénon, ricordando che «Evola è il simbolo del rifiuto della modernità e delle democrazie liberali. Ecco perché nel progetto eurasiatico di Dugin, che alimenta la politica di Putin contro l’occidente, Evola diviene un alleato contro l’Europa e gli Usa».

Perché allora sarebbe sbagliato soffermarsi sull’influenza che Evola esercita ancora oggi sulle frange estreme della destra antidemocratica, che vedono nelle liberal democrazie il nemico supremo? Non è male ricordare che è proprio grazie al nostro sistema liberaldemocratico che tali opinioni possono essere espresse, mentre è proprio nel mondo a cui Evola è caro che le voci di dissenso non hanno diritto di parola.

Sempre il 6 luglio, su Il Giornale, Luigi Mascheroni ha scritto che le due pagine su Domani nascono «per smentire l’Evola-pittore, considerato artista meno che mediocre da Demetrio Paparoni». Questo è corretto, è quel che penso. Il nostro mettere a fuoco la personalità politica e filosofica di Evola, citando peraltro i suoi testi, mirava a far comprendere al lettore quanto contradittoria fosse la sua esperienza nel mondo delle avanguardie artistiche, nelle quali il suo radicale tradizionalismo non poteva riconoscersi. Tutto questo per rimarcare quanto fosse pretestuoso e poco onesto intellettualmente dare alla mostra il titolo del celebre saggio di Kandinskij, come se la breve e fragile vicenda artistica di Evola e l’opera ben più profonda di Kandinskij potessero porsi sullo stesso piano.

Ma quanto ho scritto sull’arte di Evola è diventato secondario, perché il nervo scoperto sono le idee razziste e antisemite di Evola, il suo scavalcare a destra la destra già estrema, sostenendo un «razzismo spirituale» che in realtà pretendeva di nobilitare le teorie antisemite che condussero all’Olocausto. Brucia agli estimatori di Evola che Mirelli Serri, per esempio, abbia ricordato sulla Stampa che Evola era convinto che «il giudaismo è un acido che infetta e corrode». Possono consolarsi pensando che i suoi quadri storici li ha dipinti quando era giovane, prima che fascismo e nazismo entrassero nella storia.

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