Può sembrare un paradosso, dati i numeri della maggioranza parlamentare, ma in realtà il governo di destra ha una legittimazione fragile perché ha una debolezza di rappresentanza.

In ragione di tre fattori. Il primo, più importante, è che per la prima volta nelle elezioni politiche del paese la rappresentanza parlamentare è espressa da una minoranza dei votanti degli elettori.

Gli altri due fattori che debilitano la robustezza necessaria a un governo, sono la riduzione della rappresentanza parlamentare, a cui si è proceduto senza alcuna garanzia né bilanciamento; e l’ormai palese inadeguatezza dei quorum posti a garanzia del processo di modifica costituzionale, a causa dell’introduzione delle leggi elettorali maggioritarie: con il maggioritario i due terzi necessari a una modifica costituzionale ormai non sono più una garanzia che la modifica non avvenga attraverso una maggioranza debole o improvvisata. In altre parole: quella che oggi è una minoranza del paese ma maggioranza nel parlamento in base all’effetto di una legge maggioritaria, non ha titolo morale e politico per modificare la Costituzione.

Questo è il punto che deve essere affrontato dalle opposizioni.

Nel confronto della scorsa settimana con Giorgia Meloni, il Pd ha assunto una posizione dignitosa e seria. Ma non è sufficiente. Il tema della illegittimità da parte della maggioranza di destra a cambiare “da sola” la Costituzione, come minaccia di fare Giorgia Meloni, deve essere affrontato apertamente: se per governare la maggioranza ha un potere debole, ha un potere inesistente, non solo per i numeri dunque, per spostare “da sola” i limiti invalicabili della Carta.

Il Colle, la Corte

Chi impedisce oggi a questa maggioranza di strafare?Il presidente della Repubblica, certamente; e la Corte costituzionale. Ma sono poteri deboli se non si susciterà una forte partecipazione popolare dinanzi al cambiamento dell’assetto dei poteri costituzionali.

E allora bisogna chiedere delle garanzie indispensabili. Per dimostrare che da parte di tutti c’è buona fede nell’avviare un processo di cambiamento degli assetti costituzionali del paese, e che non si punta ad imporlo, nel giro di quattro mesi – tanto serve a una modifica costituzionale – debbono essere introdotte almeno due norme di garanzia.

La prima: ogni revisione costituzionale deve essere approvata da almeno i due terzi del parlamento. In ogni caso. La seconda: in ogni caso, persino in caso di approvazione unanime, la modifica andrà sottoposta al referendum costituzionale, deve essere obbligatorio.

Sono le norme preliminari e indispensabili, solo per cominciare a discutere, solo per avere la garanzia di un confronto aperto e libero in parlamento e fra le forze politiche. L’ultimo giudice definitivo deve essere il popolo. Era quello che chiedeva anni fa, nel 2008, un disegno di legge costituzionale di riforma dell’art.138 della Carta firmato fra gli altri da Oscar Luigi Scalfaro e Luigi Zanda. Diceva la premessa: «Questa modifica all’art.138 della Costituzione renderà più difficile approvare le riforme necessarie? Si può rispondere che non è stato così in tante altre grandi democrazie, dove da sempre la Costituzione può essere cambiata solo con maggioranze bipartisan, e che l’impossibilità di procedere a colpi di maggioranza renderà più facile, non più difficile, cercare una larga intesa sulle riforme realmente necessarie e, dunque, sentite da tutti (o quasi) come tali: la necessità di ottenere una maggioranza più larga toglierebbe infatti alle componenti della maggioranza di governo vincitrice delle elezioni l’illusione di poter imporre riforme di parte». E più oltre: «La Costituzione è di tutti i cittadini e quindi non può essere nella disponibilità di una parte sola, ancorché pro tempore maggioritaria. E dovrebbe essere condiviso da tutti che porre in sicurezza la nostra Costituzione è un grande atto di pacificazione nazionale. Infatti non è sufficiente che le parti politiche, come è certamente desiderabile, accrescano la loro reciproca legittimazione: è necessario, del pari, che queste parti si riconoscano tutte nella Carta costituzionale e nell’impegno di conservarla integra, senza rinunciare a revisioni circondate da largo consenso».

Allora non se ne fece nulla. Perché oggi il Pd non lo ripropone oggi come pregiudiziale per aprire una discussione sulle riforme?

E così siamo arrivati a oggi: oggi, in assenza di queste due norme, tutto il dibattito di queste è pura accademia. L’attuale maggioranza troverà certo in parlamento chi è disponibile a tutto: ritroverà il trasformismo, l’opportunismo, il conformismo che c’è nella società italiana. Poi troverà, forse l’ha già trovato, il soccorso del solito emerito professore tuttofare. E se già il senato, durante la sua celebrazione del suo anniversario di inaugurazione, è stato ridotto a una balera, saranno balere tutti i palazzi delle istituzioni.

Ora spetta all’opposizione porre il problema. Se la maggioranza non è disponibile a queste modifiche preventive, vuol dire che sotto le sue parole si nasconde il tentativo di allontanare sempre di più il popolo dalle istituzioni. Ma non deve farsi illusioni: in questo caso anche il governo sarà sempre di più affidato al vincolo estero, benevolo e magari anche pietoso ma che non sarà risolutivo ai nostri mali nazionali.

Non sto facendo un’ipotesi malevola. La destra non ha il problema di risolvere i problemi, ma di agitarli. E così svela qual è la vera soluzione che ha in mente: lo svuotamento degli organismi democratici. Si capisce l’origine di questa intenzione: il conservatorismo italiano è sempre stato reazionario. Non chiede la conservazione di un passato presente, come accade al conservatorismo di altri paesi, chiede la restaurazione del trapassato.

Giorgia Meloni, nella sua giovanile furbizia, spera di essere più più brava dei padri a portare a compimento il progetto reazionario. Lo si è visto anche venerdì scorso, quando ha indossato i panni di una papessa, Giorgia Prima: in bianco in presenza del Papa, ha pronunciato un disgustoso intervento clerico-reazionario.

L’ostacolo Mattarella

C’è un altro tema: Giorgia Meloni maltollera la funzione del Colle. È sicuramente contraria alla figura di garanzia democratica del presidente della Repubblica. Perché il presidente della Repubblica Sergio Mattarella oggi è oggettivamente un ostacolo al suo disegno, così come lo è la Corte Costituzionale, che nonostante il loro indebolimento progressivo, stanno facendo il massimo per porre un argine all’affondamento dei fondamentali repubblicani.

Mai un presidente della Repubblica nel giro di poche settimane aveva scelto di fare tanti discorsi con il richiamo dei fondamentali, degli articoli della Costituzione.

Ma non basterà. L’immagine emblematica della scorsa settimana è stata quella del presidente della Repubblica costretto ad osservare la sceneggiata di un presidente del senato che si era messo nei panni di un presentatore di un cantante folk, e che trasformava l’aula nella pista del liscio di Raul Casadei.

Il punto più alto della difesa democratica è stata il discorso di Mattarella contro i terrorismi, lo scorso 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Aldo Moro. Il punto più basso quelle canzonette a Palazzo Madama.

Il popolo deve riconquistare lo scettro della sovranità costituzionale perché la destra del trapassato vuole restaurare la sovranità del tiranno. La segretaria del Pd Elly Schlein ha mostrato di esserne consapevole quando, rispondendo a Giorgia Meloni che le illustrava il suo progetto, le ha replicato: «E allora perché non un re?». Non era una battuta.

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