Non amava la citazione e non indulgeva all’eleganza di stile, ma aveva piuttosto il gusto dell’interpretazione. Nel discorso di De Mita, mai avulso dalla realtà, emergeva questa esigenza particolare: tenere insieme le idee, cercandone le origini e gli sviluppi, dentro una lezione che sentiva di dover aggiornare – e quindi interpretare – alla luce di questioni sempre nuove, per non fare della storia del cattolicesimo politico l’archivio dei ricordi o l’album di famiglia. L’asse della Dc lo pretendeva intangibile in quella successione che va da Sturzo a Moro, passando per De Gasperi. Sturzo significava la centralità del programma, De Gasperi il primato della coalizione, Moro l’intelligenza dei processi politici, secondo una formula di accrescimento delle condizioni di libertà e di progresso.

Veniva dal sud, quello dell’entroterra irpino, ma si formò alla Cattolica di Milano. Era l’università di padre Gemelli e Dossetti, ma non furono questi i “padri spirituali” di Ciriaco De Mita. Nel Dopoguerra si respirava un’aria diversa, la politica entrava nel ciclo del post centrismo, qualche segnale anticipava il rinnovamento conciliare. Egli doveva allora incrociare, a Milano, l’esperienza della nascente sinistra di Base, il germoglio di una Dc più laica e moderna, il luogo di elaborazione del futuro centro-sinistra.

Quei giovani basisti, osservati benevolmente da Enrico Mattei, scontarono un certo ostracismo (anche del clero). La Base era la sinistra “della Dc”, mentre la componente social-sindacale di Pastore e Donat Cattin, con alle spalle la Cisl e le Acli, era per definizione la sinistra “nella Dc”. Una differenza, questa, che renderà De Mita poco incline a riconoscere l’utilità dell’agitazione di temi sociali, senza il respiro della mediazione politica. Per questo il rapporto con Moro significò per lui l’ancoraggio alla prospettiva di una Dc capace di guidare l’evoluzione democratica della società. In più De Mita metteva l’attenzione alle riforme dell’ordinamento istituzionale, immaginando che in questa operazione di rinnovamento fosse persino naturale identificare lo spazio di una corretta collaborazione tra Dc e Pci.

Il comunismo era un fatto e come tale andava conosciuto e trattato, accantonando il sovrappiù delle pregiudiziali ideologiche. Questa era la laicità del discorso demitiano. Fedele al brocardo “ex facto oritur ius” che i giuristi della Cattolica tenevano in evidenza, fu impermeabile alle lusinghe di Rodano sull’incontro tra cattolici e comunisti nel segno del compromesso storico. Non gli apparteneva questa “teologia politica” assunta a veicolo della reciproca salvezza di Dc e Pci.

De Mita arrivò al vertice di piazza del Gesù quando cominciavano i segni di logoramento del potere democristiano. Moro era stato eliminato, la sua eredità appariva compromessa. Vinse sulla logica del “preambolo” che pure aveva ripristinato, dopo l’esperienza della solidarietà nazionale, l’intesa di governo con il Psi, a prezzo tuttavia di una progressiva debilitazione del ruolo della Dc.

Tutta la sua segreteria, durata sette anni e intrecciata in ultimo al ruolo di presidente del Consiglio, ebbe il significato di una costante competizione sul piano delle proposte e delle scelte di cambiamento, al riparo da subalternità. Fu la stagione di una nuova classe dirigente. Poi, quando Tangentopoli spazzò via la Prima repubblica, prese la postura del coriaceo assertore delle virtù democristiane. In realtà si traducevano nel sogno che preservò sempre, fino al culmine della vita terrena, di un’Italia bisognosa dell’apporto inesauribile del filone democratico cristiano. Non si è stancato mai di ripeterlo.

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