La questione dell’embargo petrolifero alla Russia inizia ad assomigliare alla gestione della crisi dei conti truccati della Grecia nel 2009: una battaglia politica all’apparenza laterale, ma che se gestita male può minare la tenuta dell’Unione europea e la credibilità del suo intero progetto.

Lo schema, che ormai si ripete su base settimanale, è questo: un grande paese o un vertice delle istituzioni dice che è fondamentale vietare l’importazione del petrolio russo, che finanzia la guerra in Ucraina. Un paese medio piccolo, l’Ungheria di Viktor Orbán o uno dei suoi sodali come la Slovacchia, si oppone.

Da tempo è chiaro a tutti che è il sistema tedesco che non ha alcuna intenzione di farsi carico del costo di una interruzione delle forniture: la Bundesbank, l’influente banca centrale tedesca, ha vaticinato un possibile crollo del Pil del 5 per cento.

Proprio per allontanare i sospetti di essere i veri mandanti del veto ungherese, ieri il ministro dell’Economia tedesco Robert Habaek ha detto una frase sibillina: “MI aspetto che ciascuno, Ungheria inclusa, lavori a una soluzione”. Più una serie di altri commenti il cui senso è: se c’è unanimità la Germania non si oppone certo, ma bisogna pur risolvere il problema Orbàn.

Intanto il tempo passa, e il tempo non è una variabile secondaria perché le esportazioni di petrolio  - come e quanto quelle di gas – sono cruciali per l’esercito di Vladimir Putin, visto che praticamente l’energia è rimasto l’unico prodotto di esportazione di una Russia bloccata dalle sanzioni.

Secondo delle stime del ministero dell’Economia russo, che paiono piuttosto ottimistiche, una riduzione del 10 per cento all’anno dell’export di petrolio dalla Federazione russa determinerebbe un peggioramento del Pil dell’1 per cento rispetto allo scenario base, che comunque prevede già una recessione del 7,8 per cento.

L’economia russa sta collassando sotto il peso delle sanzioni, della fuga di talenti e capitali, e dell’isolamento internazionale: il gettito dell’Iva è crollato di un terzo da un mese all’altro, segno che i consumi sono evaporati.

I russi sono allo stremo, anche se il controllo del dissenso non fa emergere la serietà della situazione. Ma finché Putin continuerà a ottenere gli incassi del petrolio, dimostrerà anche all’opinione pubblica russa di tenere l’Europa in scacco.

Come ha ricostruito il New York Times, parte dei profitti della gestione del greggio russo, attraverso il ruppo Mlol, vanno poi a finanziare (con 65 milioni di dollari) direttamente le fondazioni conservatrici ungheresi che sono il punto di incontro con i conservatori americani e l’ispirazione per quelli europei. Tutti influenti nell’invitare alla prudenza sul tema delle sanzioni europee sull’energia temute da Putin.

Il Consiglio europeo del 30 e 31 maggio è l’ultima vera occasione diplomatica per evitare la disfatta di immagine e di sostanza: la Commissione europea prova a varare da settimane il sesto pacchetto di sanzioni che dovrebbe finalmente colpire l’energia, ma senza l’accordo politico dei governi raccolti nel Consiglio non c’è speranza. 

Il mercato non crede che si arrivi all’embargo tanto presto: lo sconto a cui è venduto il petrolio russo Ural rispetto a quello di altra origine (Brent) ha smesso di aumentare quando è iniziato lo stallo sul sesto pacchetto di sanzioni.

Tradotto: chi scommette i suoi soldi sul prezzo futuro del petrolio russo ha capito che le probabilità di un embargo iniziavano a ridursi. Perché l’Europa si è paralizzata, con l’effetto di lasciare come unico terreno di scontro quello militare.

Così i rischi dell’escalation aumentano, come dimostra la tensione sul fronte orientale, con il presidente Usa Joe Biden che promette di difendere militarmente Taiwan da un destino ucraino e la Cina e la Russia che alzano in volo i bombardieri nucleari a scopo intimidatorio.

© Riproduzione riservata