Il presunto caso di corruzione e di traffico illecito di influenze che riguarderebbe alcuni appalti in Anas riporta all’attualità la questione della regolamentazione dei rapporti tra lobbisti e decisori pubblici.

In Italia si discute di una legge in materia dal 1974 e in questi cinquant’anni sono stati presentati 108 disegni di legge, senza mai raggiungere il risultato. L’effetto è sotto gli occhi di tutti: impossibile distinguere tra l’attività lecita, necessaria, democraticamente doverosa di rappresentanza di interessi particolari al decisore pubblico e, dall’altro lato, l’attività illecita, sleale, penalmente rilevante posta in essere da faccendieri e affaristi senza arte né parte solo grazie ad una buona rubrica telefonica.

Sicché ha gioco facile la presidente Giorgia Meloni nella conferenza stampa di inizio anno a mettere sullo stesso piano lobbisti e affaristi. Tuttavia occorre fare una distinzione netta tra queste due categorie e occorre che a farla sia, il prima possibile, una legge.

Professione importante

I lobbisti esercitano una professione necessaria per lo sviluppo di qualsiasi democrazia: sono portatori di istanze multiformi che i decisori devono poter ascoltare e contemplare nelle loro scelte. Come ha ricordato la Corte costituzionale, il lobbying è l’esercizio di un diritto costituzionale che fonda la propria esistenza nelle libertà fondamentali di associazione, riunione, manifestazione del pensiero; non consentire tale attività sarebbe negare l’essenza stessa dello stato democratico.

Ma questa professione, al pari di molte altre, deve essere regolata per evitare che il suo legittimo esercizio vada a danno di altri principi fondamentali, come quello del buon andamento della pubblica amministrazione o il divieto di mandato imperativo dei parlamentari. Allo stato attuale molti ex parlamentari, componenti di staff ministeriali, funzionari di partito, giornalisti (o presunti tali), neo-laureati si inventano lobbisti, spesso senza alcuna qualificazione né studi adeguati. E questo perché c’è la convinzione che basta avere un paio di contatti giusti (o essere figlio del potente di turno) per fare lobbying. È una convinzione che deriva da una constatazione: come scriveva il politologo statunitense Joseph La Palombara, l’accesso al decisore pubblico in Italia è legato a rapporti di clientela o parentela. In altri termini, nell’assenza di regole, il contatto con chi comanda si ha grazie all’amico dell’amico e non perché se ne ha diritto.

Questo è visibile dal piccolo comune al grande ministero: in quanti, per avere un semplice certificato, si attivano per capire qual è l’amico giusto all’anagrafe? E così per la visita medica, l’esame universitario, la domanda di pensione fino all’incontro col direttore generale o il ministro di turno: tutti alla ricerca dell’amico dell’amico per avere una corsia preferenziale. Questa cultura, descritta nel film di Sorrentino Il Divo con la battuta «A’ Fra che te serve», permea tutte le relazioni pubbliche in Italia.

Le norme necessarie

La presidente Meloni nella sua conferenza stampa ha aggiunto che gli affaristi non avranno campo di gioco finché resta al comando: se è davvero così, occorre che prenda l’iniziativa e che il suo Governo presenti, prima possibile, finanche con un decreto legge, una proposta per regolare i rapporti tra interessi privati e bene pubblico.

Basterebbero quattro disposizioni: una che definisce cosa è lobbying e quali soggetti possono esercitare tale professione; un’altra che renda trasparenti gli incontri tra i decisori pubblici di ogni ordine e grado e i lobbisti (perché non c’è nulla di male ed anzi tali incontri sono fondamentali per la qualità della democrazia); un’altra che consenta ai lobbisti di accedere, in modo paritario, ai decisori senza dover più ricorrere all’agendina dell’amico; un’ultima che vieti il cambio di casacca (gli americani parlando di “revolving door”) ovvero la trasformazione dell’ex decisore in lobbista e viceversa. La presidente Meloni ha tutto il potere per farlo; se lo vuole davvero.

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