Il segno distintivo del Partito democratico, fin dalla sua nascita, è stato quello della responsabilità. Il Pd doveva prima di tutto pensare al “bene comune”, come recitava lo slogan della sua campagna elettorale del 2013. Non una visione partigiana, bensì un approccio teso a rappresentare interessi generali e a difendere le istituzioni: dall’offensiva berlusconiana volta a piegare al suo servizio norme e princìpi, dall’estremismo sovranista e xenofobo della Lega, dal populismo barricadiero dei grillini.

Il Pd, in stretta sintonia con i presidenti della Repubblica, eletti tutti con i suoi voti ma poi accolti come propri anche da chi li aveva inizialmente avversati, ha sempre risposto ai richiami che gli venivano fatti affinché intervenisse a tappare le falle di un paese in crisi. Dal 2011 in poi il partito si è piegato a esigenze sistemiche mettendo sotto traccia il suo particulare. Solo nel periodo renziano questo atteggiamento si è attenuato. Ma è stata una parentesi.

Scelte controproducenti

Il profilo sistemico adottato dal Pd gli è costato caro. Entrare nel governo Monti nel 2011 invece di chiedere nuove elezioni gli ha fatto perdere una maggioranza sicura. Dopo aver sostenuto per più di un anno tutte le misure di austerità di quell’esecutivo per raddrizzare i conti pubblici non è arrivato un riconoscimento corale da parte degli elettori, tutt’altro. 

La non vittoria del 2013 è stata in realtà una bruciante sconfitta che, con l’aggiunta di una serie di passi falsi e trabocchetti non visti, ha portato il segretario Pierluigi Bersani alle dimissioni e il partito ad una umiliante convivenza con il PdL di Berlusconi.

Anche nel 2019 Nicola Zingaretti è stato forzato da mezzo mondo ad accettare di formare un governo con il M5s perché bisognava salvare l’Italia dalle grinfie di Matteo Salvini. Come si ricorderà è stato Matteo Renzi, allora ancora nel Pd, a indicare questa soluzione per non lasciare l’Italia al sovranismo leghista – mentre ora si è ben guardato, insieme all’alleato Calenda, dal promuove una unione di tutti contro la destra.

Fedeli all’élite

L’esito calamitoso del 2013 rischia di ripetersi in queste settimane e su Enrico Letta incombe una sorte non dissimile da quella occorsa a Bersani: dopo aver donato sangue a un governo di larghe intese, ma con un certo strabismo verso destra tanto che Letta non ha ottenuto alcun provvedimento simbolo da poter sventolare ora in campagna elettorale, il Pd arriva alle urne senza linfa vitale.

Mentre, con apparente paradosso, chi si è sempre tenacemente opposto a Draghi, e cioè Fratelli d’Italia, raccoglie grandi consensi. Il Pd ha sventolato come un vessillo la misteriosa agenda Draghi, identificandosi più di ogni altro partito con il governo uscente.

Tutti gli altri contendenti, escluso Calenda, se ne sono distanziati e non a caso raccolgono frutti generosi tra gli elettori. A forza di volersi dimostrare affidabili di fronte all’establishment e alle classi dirigenti, e responsabili di fronte al paese, il Pd lascia sul terreno legioni di elettori inevitabilmente scontenti per l’operato di un governo che, ad esempio, non ha fatto nulla per ridurre le disuguaglianze sociali e territoriali e ha anzi favorito comportamenti incivici nei confronti del fisco con vergognosi condoni e “pacificazioni”.

La perdita di contatto

Il Pd si è fregiato del titolo di “partito naturale di governo”, come un tempo si diceva dei conservatori britannici, perché è l’unico che dispone di una classe politica ampia e sperimentata a livello locale e nazionale. Ma si è adagiato in questa condizione. Ha dimenticato che per esercitare tale ruolo servono anche consensi da grande partito, nonché una organizzazione ramificata e militante.

Se mancano queste condizioni il Pd rinsecchisce, si rende incapace di rappresentare interessi diversificati e soprattutto  delle componenti sottoprivilegiate della popolazione. La perdita di contatto con le periferie delle città metropolitane, avvenuta nel corso della segreteria di Matteo Renzi a favore delle Ztl, ha ristretto il bacino di reclutamento elettorale del Pd riducendolo a un ruolo da “partito radicale di massa”, proteso alla promozione dei diritti civili, ma distratto nei confronti delle fasce più deboli della popolazione. 

L’adesione spassionata al governo Draghi, tanto da non aver preso nemmeno in considerazione l’ipotesi di allearsi con i Cinque stelle che avevano contribuito alle sue dimissioni, rischia di portare il Pd a una desertificazione del suo bacino elettorale. Come nel 2013.

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