Enrico Letta, sul Corriere della Sera, ha proposto di gestire l’allargamento a Ucraina, Georgia, Moldavia e Balcani Occidentali con la creazione di un anello “confederale” attorno all’attuale Ue. L’obiettivo è accelerare i tempi – imposti dalla guerra – per l’ingresso di questi paesi nella “famiglia europea” senza forzare la tempistica e le regole del percorso ordinario di adesione.

Letta ha poi precisato, in un’intervista al Politico, che l’allargamento potrebbe vedere una prima fase in cui i paesi candidati condividerebbero l’Area Economica Europea (come avviene con la Norvegia) per accedere al mercato europeo e ad alcune politiche (ricerca, Erasmus); una seconda fase in cui condividerebbero altre politiche (commercio, diritti, sostenibilità); mentre la difesa entrerebbe nella fase finale. La proposta pare utile, per la finalità e il percorso suggerito.

Diverso è il discorso di chi propone formule del tipo “Europa a due velocità”, con un “nucleo forte” composto dai paesi (quali?) che condividerebbero la politica economico-sociale e la sicurezza e gli altri che resterebbero nell’attuale situazione. Di fatto la divisione dell’Ue in due aree politico-istituzionali. La proposta non è nuova, ricalca, nello spirito, quella dei ministri francese e tedesco Lamers-Schauble del 1994.

L’idea delle “due velocità” è sempre rimasta un oggetto del desiderio dell’ingegneria istituzionale europea, priva del processo materiale (politico-economico-sociale) che ha sempre guidato lo sviluppo dell’unificazione. E non si è mai realizzata. Immaginare, infatti, che si possa dividere il cosiddetto “mercato” (che dovrebbe restare a 27) dalla “politica” (che dovrebbe diventare federale per un nucleo ristretto di Paesi) presenta diverse controindicazioni.

Le controindicazioni

Primo. Il mercato non è solo area di libero-scambio, è anche politica perché determinato da istituzioni e leggi, frutto di scelte guidate da istituzioni politiche. È tecnicamente impossibile operare questa divisione (Brexit docet): chi sta nel mercato unico europeo non può non condividere le scelte politiche, economiche e sociali, soprattutto con il Recovery che prevede un debito comune sugli investimenti. Mercato e politica sono strettamente integrati, a maggior ragione se si prevede una politica sociale europea per fronteggiare la crisi economica ed energetica che deriva dalla guerra in corso.

Secondo. Non possono di conseguenza esserci due bilanci nell’UE, uno per i Paesi di serie A (politica federale), uno per quelli di serie B (mercato confederale). Non è un caso che il Recovery prevede che le risorse NexgenEU (che producono debito comune) facciano parte dello stesso bilancio pluriennale dell’UE (a 27) che garantisce quel debito. Non potrebbe essere diversamente.

Terzo. Il potere di veto deve essere certamente superato, ma se c’è la volontà. Questa non si determina a priori e in astratto da parte di un gruppo di Stati (quali?), ma sulla base delle politiche da fare, come avvenne con il Recovery, che produsse la fine del potere di veto per la gestione delle risorse NextGenEU, senza modificare i Trattati. La stessa cosa può avvenire con la politica di sicurezza comune, lo Strategic Compass, approvato da tutti i 27.

Dunque: se c’è volontà politica si può avanzare, fare oggi le politiche comuni che servono, disinnescando il potere di veto (gli strumenti ci sono). Se manca questa volontà comune, non ci si siede neanche al tavolo per discutere la riforma dei Trattati.

La storia ha mostrato che l’allargamento ha sempre prodotto un rafforzamento delle strutture istituzionali dell’Unione (il Trattato di Lisbona ha superato quello Maastricht): se aumenta la diversità politica dei membri occorre accrescere il potere delle istituzioni per poter gestire il tutto. Parlare oggi di Europa a due velocità, con la guerra in corso, vuol dire indebolirla. Un assist per Putin. Va detto chiaramente.

© Riproduzione riservata