In uno dei documenti prodotti dalla Commissione Covid-19 istituita presso l’Accademia dei Lincei si legge che «la trasparenza di tutti i dati riguardanti la pandemia Covid-19 è fondamentale per la democrazia che si basa sul principio che tutte le scelte importanti devono essere fatte sulla base di informazioni analizzate e discusse pubblicamente». 

Inoltre, «è impossibile arrivare a decisioni condivisibili e condivise senza la trasparenza delle informazioni, tanto più in materia sanitaria; oltretutto l’informazione carente lascia spazio a dubbi e indebolisce la posizione delle istituzioni. Non è ammissibile, perciò, che il pubblico abbia accesso solo alle conclusioni e non ai dati originali».

E’ una posizione pienamente condivisibile e sempre più diffusa anche all’interno della comunità scientifica. Tanto che anche l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), come si legge dal sito, promuove «l’accesso libero e immediato ai risultati e ai dati della ricerca» (open access) e sottolinea che il «principio alla base dell'open access è che i risultati delle ricerche finanziate con fondi pubblici devono essere pubblicamente disponibili».

L’open access, infatti, mira a: «potenziare la disseminazione su scala internazionale della ricerca scientifica; rendere accessibili i prodotti della ricerca a soggetti privi di accesso ai sistemi di distribuzione a pagamento; comprimere il tasso di duplicazione degli studi scientifici; rafforzare la ricerca interdisciplinare; il trasferimento della conoscenza alle imprese e la trasparenza verso la cittadinanza, rendere più efficiente l’uso di contributi scientifici a fini didattici; garantire la conservazione nel tempo della produzione scientifica».

Tuttavia, proprio questi due enti — l’Accademia dei Lincei a l’Infn — hanno richiesto all’Istituto Superiore di Sanità (Iss) di condividere bilateralmente l’accesso ai dati prodotti nel processo di sorveglianza COVID-19.

L’accordo di collaborazione scientifica tra l’Iss e l’Accademia dei Lincei, firmato il 16 Novembre, prevede che le parti si impegnino a non divulgare e comunicare informazioni e dati senza la reciproca preventiva autorizzazione. Presumibilmente, l’Infn godrà di un accesso simile, come dichiarato dal Presidente dell’Istituto Antonio Zoccoli.

Molto poco open

Se da un lato l’apertura dell’Iss a condividere l’accesso ai dati va nella giusta direzione di promuovere una maggiore conoscenza della pandemia, le modalità sono tutt’altro che in linea con i principi alla base dell’open access e con l’importanza di rendere disponibili i dati a tutta la comunità scientifica, come affermato recentemente proprio dal presidente dell’Iss Silvio Brusaferro. Al contrario, si procede per accordi bilaterali ed esclusivi.

Se anche l’Iss fosse disposta a condividere i dati con tutti gli enti di ricerca che li chiedano, si tratterebbe comunque di una procedura bizantina che mal si concilia con il libero accesso ai dati e alla conoscenza.

Se alcuni ricercatori, afferenti ad atenei e centri di ricerca diversi, volessero accedere ai dati per condurre degli studi scientifici, dovrebbero far sì che i rispettivi enti di appartenenza facciano richiesta all’Iss.

Conoscendo le difficoltà di coordinare queste richieste all’interno della pubblica amministrazione, specialmente in un periodo come questo, è facile immaginare come questa procedura possa demotivare la gran parte dei ricercatori. I più motivati insisteranno, ma è questo il modo in cui vogliamo che i nostri ricercatori impegnino il loro tempo?

L’open access renderebbe la condivisione dei dati più snella e trasparente. Se si volesse tenere traccia di chi accede ai dati e dei diversi progetti di ricerca—una preoccupazione comprensibile—sarebbe sufficiente pubblicare un bando con requisiti minimi (ad esempio, la presentazione di un progetto di ricerca) per accedere ai dati—una procedura standard in contesti simili.

Al momento, nonostante numerosi appelli e richieste l’Iss non ha ancora preso una posizione pubblica, nell’attesa, forse, di trovare una soluzione. Ma il tempo è una risorsa scarsa, soprattutto in questo periodo. E l’esistenza di altri accordi già in essere lascia intendere che il problema sia più che altro legato alla mancanza di volontà.

Anche perché ormai il costo di armonizzare e anonimizzare i dati dovrebbe essere stato sostenuto e quindi rendere pubblici i dati non comporterebbe ulteriori aggravi. Passare dalle parole ai fatti rendendo disponibili i dati alla comunità scientifica non solo permetterebbe una maggiore trasparenza e controllo sulle politiche pubbliche, ma eviterebbe di alimentare sospetti di trattamenti preferenziali e dubbi sull’effettiva disponibilità e qualità dei dati.

© Riproduzione riservata