Con le elezioni legislative di oggi la Germania chiuderà l’era Merkel, un lungo regno (16 anni) che ha consacrato la Germania, un tempo grande malato d’Europa, come paese solido e superpotenza economica. 

Guardando ai sedici anni di cancellierato è difficile isolare momenti memorabili, se non la decisione di uscire dal nucleare nel 2011, dopo la catastrofe di Fukushima, e quella di non chiudere le frontiere ai rifugiati siriani nel 2015.

Ma il lungo governo di Angela Merkel è stato un mix di attendismo, decisioni ponderate, reticenza nel prendere decisioni nette e predilezione per il compromesso.

È questo modo di “governare senza scegliere” che le ha valso il soprannome di Mutti, una mamma rassicurante, prevedibile. Ha funzionato, il metodo Merkel? Forse in casa (con molte zone d’ombra), ma certamente non in Europa.

Al posto giusto

Mutti ha potuto permettersi il lusso di governare senza scegliere perché ha avuto la fortuna di essere al posto giusto al momento giusto: l’euro e l’allargamento a Est dell’Unione europea hanno costituito uno straordinario beneficio per la Germania nei primi anni 2000. Merkel ne ha raccolto il dividendo.

Molti attribuiscono la rinascita tedesca degli anni Duemila alle riforme Hartz del 2003-2005, che hanno reso più flessibile il mercato del lavoro. Se è vero che a partire dal 2005 la crescita tedesca è stata trainata dalle esportazioni, l’impatto delle riforme del mercato del lavoro è stato probabilmente marginale. ll “miracolo” tedesco è soprattutto il frutto di una riorganizzazione della struttura produttiva causata da eventi esterni.

La crescita dei paesi emergenti (Cina e India), ormai mercati stabili per i beni di lusso, ma soprattutto affamati di beni capitali e in particolare di macchinari, di cui la Germania è il massimo produttore mondiale.

In questo settore non è la moderazione salariale a determinare la competitività, ma qualità, la produttività e il know-how, che consentono di mantenere situazioni di quasi monopolio in mercati di nicchia.

Questo dominio è facilitato dai legami commerciali, con i paesi dell’Est, rinforzati dall’allargamento dell’Ue del 2004. Approfittando dei legami culturali e della prossimità geografica, al momento dell’ingresso dei paesi dell’Est nel mercato unico le imprese tedesche vi hanno spostato la produzione di beni intermedi a basso valore aggiunto, comprimendo così i costi di produzione.

L’euro la Germania

L’euro ha accentuato i benefici di questa riorganizzazione. La moneta unica si è apprezzata negli anni Duemila, ma questo non ha penalizzato le imprese tedesche che da un lato erano specializzate in beni di gamma elevata, la cui domanda internazionale è meno sensibile alle fluttuazioni del cambio e del prezzo; grazie alla riorganizzazione della catena del valore si trovavano a pagare meno per i beni intermedi importati dall’Est rispetto ai quali l’euro si era rivalutato.

Per la sua posizione nella catena del valore europea, dunque, la Germania è stata il solo Paese dell'euro zona ad avere allo stesso tempo una valuta forte per pagare le importazioni e un cambio debole per le esportazioni.

I grandi perdenti di questo riorientamento a Est della catena del valore sono i paesi del Sud Europa (in particolare l’Italia), rimpiazzati dai nuovi Stati membri come fornitori delle grandi imprese tedesche.

Merkel ha avuto solo l’abilità di governare un processo guidato da fattori esterni. A livello europeo, invece, il metodo Merkel ha invece fatto danni che paghiamo ancora oggi.

Il precipizio

Angela Merkel è stata spesso dipinta come la salvatrice della moneta unica, omettendo di dire che il salvataggio è spesso venuto dopo che erano stati proprio gli atti e le omissioni della cancelliera a portare l'euro zona sul bordo del precipizio.

Pensiamo all’inverno del 2009 quando la cancelliera, che non voleva impegnarsi prima delle elezioni regionali, ritardò per mesi l’approvazione del primo piano di aiuti alla Grecia, contribuendo al propagarsi della crisi ad altri paesi.

Nel 2015 Merkel tergiversò a lungo prima di sconfessare il suo potente ministro delle finanze Schäuble che premeva per l’uscita della Grecia dall’euro (in quell’occasione, il salvatore dell’euro fu piuttosto il bistrattato François Hollande, che le impedì fisicamente di abbandonare la sala in cui si negoziava).

Negli anni Duemila dieci la Germania ha tenuto la barra dritta sulle politiche di austerità imposte ai paesi in crisi e adottate anche in casa (con l’orgogliosa esibizione del pareggio di bilancio).

Sono politiche perseguite contro un’evidenza crescente del fatto che si trattasse di risposte sbagliate ai problemi di divergenza e di crescita della moneta unica. Il rifiuto del principio della condivisione del rischio ha partorito politiche suicide e istituzioni inadatte a governare l’euro con politiche coordinate e comuni.

La “germanizzazione” di un'eurozona in cui la compressione della domanda domestica aumenta la dipendenza dalle esportazioni è stata perseguita con metodo, trascurandone i costi in patria e altrove.

La politica dell’ “ognuno per se e responsabilità fiscale per tutti” è infine volata in mille pezzi con la pandemia, quando finalmente la Germania ha messo il proprio peso dietro al Recovery Fund. Ancora una volta probabilmente troppo poco, e certamente troppo tardi.

I governi di Angela Merkel hanno costituito una potente forza di conservazione nell’Europa degli ultimi dieci anni. Essi hanno, solo in parte, fatto gli interessi della Germania, ma ci hanno consegnato un’Europa più fragile, diseguale, incapace di affrontare le sfide del futuro. Gli storici del futuro non saranno teneri con Mutti.

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