Se in un motore di ricerca si inseriscono i termini “AS Roma” e “violenza contro le donne” i primi risultati portano a una varietà di iniziative che la società giallorossa ha promosso in anni recenti per manifestare il proprio impegno contro questo genere di abusi.

L’ultimo è il progetto “Amami e basta” che ha visto la squadra promuovere una conferenza all’università di Roma La Sapienza su «temi inerenti la lotta alla violenza di genere, al sessismo e al bodyshaming».

Non compare invece, se non cambiando le chiavi di ricerca, un’altra notizia: quella di un giocatore della primavera che ha sottratto un video intimo dal telefono di una dipendente, diffondendolo senza il suo consenso; e di lei che, quando il video «che inconfondibilmente la ritrae nel compimento di atti sessuali» arriva all’attenzione delle risorse umane, viene licenziata. Proprio così, è lei a perdere il lavoro.

Perché – viene comunicato alla donna dal legale del club – «purtroppo risulta che tale video sia stato visionato da gran parte dei giocatori e del personale», dunque la prosecuzione del rapporto sarebbe «incompatibile» con il «sereno e regolare andamento dell’attività della società».

Un sereno e regolare andamento che, per essere preservato, esclude invece qualunque provvedimento contro il giovane giocatore responsabile della diffusione illecita del materiale intimo.

Può davvero qualcuno raggiungere un tale livello di ipocrisia? Schierare la squadra del cuore della capitale a sostegno della lotta contro la violenza sulle donne e poi licenziare una donna che ha subito a tutti gli effetti una violenza e subisce, con il licenziamento, una seconda forma di vittimizzazione?

Forse sì. Ma forse non si tratta di ipocrisia. Semplicemente, non si sa riconoscere in questa serie di azioni, in questi gesti che non lasciano lividi sul corpo, la violenza. Eppure lo sono, anche ai sensi della legge italiana.

La fattispecie di reato chiamata revenge porn punisce «chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate».

Chiaro, no? L’unica espressione che può creare qualche confusione è proprio revenge porn, rispetto a cui le studiose preferiscono parlare di «diffusione non consensuale di immagini intime», per non limitare la portata dell’illecito ai soli casi di “vendetta” da parte di un ex.

Questo tipo di abuso è invece, come emerge anche dal caso dell’As Roma, molto più esteso. È grave ed è grave, forse ancor più, il licenziamento della donna. Quel gesto riporta in superficie un tratto profondo della cultura patriarcale, la riduzione della donna a corpo, a fondo oscuro ed elemento perturbante dell’ordine sociale, la cui rimozione dalla sfera pubblica e dai luoghi del lavoro è funzionale al buon funzionamento delle relazioni (tra uomini).

La presidente di Differenza Donna Elisa Ercoli e quella di Assist, Luisa Rizzitelli, hanno parlato di un fatto «vergognoso» e preteso «ben altro comportamento dalla As Roma, non solo perché guidata da una donna», Lina Souloukou, «ma perché società che si professa da sempre attenta a queste tematiche».

Sulla sensibilità delle donne in posizioni di potere, si sa, non è affatto ovvio poter contare. Ma senz’altro va detto a gran voce che chi fa della violenza contro le donna una bandiera deve passare dalle parole ai fatti. Meno panchine rosse e sorrisi a favore di camera. Più sportelli antiviolenza, tutele sul lavoro, formazione del personale e dei vertici aziendali.

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