Non sappiamo chi abbia piazzato l’ordigno sotto casa Ranucci né perché. Ogni conclusione e analisi è dunque affrettata. Ma la solidarietà arrivata dalle istituzioni scomparirà nel vento se non si tradurrà in atti concreti per la libertà d’informazione e a difesa dei giornalisti liberi
L’intimidazione subita dal conduttore di Report Sigfrido Ranucci e dalla sua famiglia lascia sgomenti. Non solo per l’aggressione a colpi di bombe carta al giornalista, che da anni è uno dei simboli di chi prova ancora, cocciutamente, a raccontare le pieghe nascoste e gli scandali dei potenti. Ma anche perché rende manifesta una democrazia monca, malata, dove i cronisti che fanno il loro dovere rischiano, sistematicamente, pressioni e minacce, fino a violenze come quella di giovedì notte.
Al netto della matrice che ancora ignoriamo e che molto dirà dei motivi per cui uno o più sconosciuti hanno piazzato un ordigno rudimentale in mezzo ai vasi della villetta di famiglia a Pomezia, è un fatto che l’attentato colpisca il lavoro di Ranucci, quello dell’intera redazione di uno dei pochissimi programmi di servizio pubblico rimasto in Rai e, indirettamente, quello dell’intera stampa libera.
Solo due settimane fa, da un palco in Puglia, con Ranucci elencavamo gli ostacoli che in questi anni il potere economico, politico e giudiziario hanno opposto a un mestiere che ha obiettivo primario quello di informare i cittadini, affinché possano scegliere al momento del voto quali rappresentanti (e dunque quale governo) supportare e sostenere. La lista è senza fine: querele temerarie, richieste di risarcimento danni multimilionarie, pressioni multiformi, insulti pubblici, caccia alle fonti da parte delle procure, intercettazioni abusive a cronisti e direttori di testate.
L’arma preferita dal potere illiberale, e non da ora, è però quella della delegittimazione: i giornalisti e la loro funzione – anche quando raccontano fatti incontrovertibili con evidenze indiscutibili – sono vissuti come un fastidioso filtro tra il potere e l’opinione pubblica, nei casi migliori; come servi, calunniatori, professionisti faziosi da isolare e sostituire con colleghi embedded, in quelli peggiori.
Nulla c’entra, nella vicenda della bomba carta, il governo sovranista. Chi oggi rovescia le teorie bislacche sui «cattivi maestri» usate da Meloni negli scorsi giorni per incendiare la polemica contro le piazze e «la sinistra peggio di Hamas» commetterebbe un grave errore. Mai usare propaganda avariata: è un gioco di specchi che fa male in primis alla tenuta democratica, bene prezioso che tutti devono proteggere da ogni tentazione retorica.
Quello che si deve, e può, contestare alla presidente del Consiglio e alla sua claque di fedelissimi, fatta anche di editori impuri che usano i loro media come clava contro gli avversari veri o presunti, è la creazione in questi anni di un clima asfittico per il giornalismo critico.
L’Italia di Meloni non è il Messico dei narcos o la Russia di Vladimir Putin che ammazza Anna Politkovskaja, ma un paese in cui cresce un’ostilità diffusa verso chi esercita il diritto di cronaca e opinione. Premier, ministri, parlamentari (non solo di destra, in verità) invece di difendere l’articolo 21 della Costituzione e il giornalismo d’inchiesta lo attaccano sbracatamente e assai volentieri, additandolo pubblicamente come un pericolo da ridimensionare, disconoscendo il valore di un ingranaggio chiave per ogni sistema democratico maturo.
Se Report, Domani, Fanpage, Il Fatto Quotidiano o Repubblica vengono definiti «portatori d’interesse», quando querele cadono a pioggia su ogni articolo sgradito, se i talk non proni a palazzo Chigi vengono evitati come la peste, se si aboliscono le conferenze stampa perché le domande sgradite vengono considerate lesa maestà, significa che il governo non si vergogna di minare il fragile equilibrio tra potere e controllo, cioè tra esecutivo e cittadini, bilanciamento necessario a fare della repubblica un paese davvero libero.
Non sappiamo chi abbia piazzato l’ordigno sotto casa Ranucci né perché. Ogni conclusione e analisi è dunque affrettata. Ma la solidarietà arrivata dalle istituzioni scomparirà nel vento se non si tradurrà in atti concreti: una legge che protegga la stampa dalle querele bavaglio, una Rai che non risponda più ai partiti e al governo, una politica che rinunci all’intimidazione, una nuova attenzione alla cultura del rispetto. Sarebbe un passo in avanti, ma siamo quasi sicuri che nessuno lo farà. Speriamo di sbagliarci.
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