Le polemiche suscitate dalla decisione del parlamento europeo di vietare dal 2035 i motori inquinanti sono la cifra dell’inconsapevole arretratezza del dibattito sull’emergenza climatica e sull’esigenza di un diverso sviluppo industriale.
I critici contestano l’esistenza stessa di una connessione tra azione umana e crisi ambientale, la mancata difesa degli interessi nazionali a tutela delle imprese italiane, la cessione di sovranità dell’Europa verso la Cina (il principale produttore mondiale di componenti per le auto elettriche).
Anche se una parte della scienza sostiene che l’inquinamento automobilistico poco incide sul cambiamento climatico ciò non vale a sottovalutare la crisi ambientale del nostro tempo.

Quali che siano le cause, l’emergenza climatico-ambientale esige proprio un cambio di prospettiva nel capitalismo e nelle politiche economiche. La giustificazione secondo la quale la decisione europea non avrebbe senso in rapporto ai paesi in via di sviluppo, che non vogliono rinunciare ad una crescita che se ne infischia della protezione ambientale, è un esempio di benaltrismo.

Costituzione e ambiente

Da qualche parte si dovrà pur cominciare. Continuare a pensare che solo una strategia globale potrà salvare l’ambiente serve per rinviare a babbo morto ogni iniziativa seria. Lo prova l’inconcludenza delle riunioni internazionali e l’ineffettività delle convenzioni internazionali sulla protezione dell’ambiente.

Nel nostro paese, molti e, quindi, non solo i cantori degli interessi nazionali, si sono dimenticati della modifica costituzionale che, nel 2022, ha inserito la protezione dell’ambiente, anche nell’interesse delle future generazioni, tra i principi fondamentali.

In questa riforma costituzionale, approvata quasi all’unanimità dal parlamento italiano, si è stabilito che tutelare la salute e l’ambiente impongono una trasformazione dell’organizzazione dell’impresa e del lavoro.

La memoria latita, nonostante il Covid-19, i cui effetti devastanti avrebbero dovuto insegnare come dietro la foglia di fico dello sviluppo sostenibile si cela proprio un’alleanza tra capitale e lavoro che può ancora fare strame della salute e dell’ambiente.

Il ruolo dell’Ue

L’Unione europea, con Next generation Eu e con il Green new deal, ha proprio dato il segno di voler cambiare prospettiva, mettendo al centro la solidarietà come presupposto su cui edificare una società europea che si faccia carico del conflitto esistenziale in cui siamo sprofondati.

Al confronto, il neonazionalismo casareccio, che sbandiera presunti interessi nazionali, è fuori tempo e del tutto inconcludente. Dietro la decisione del parlamento europeo non v’è il colore politico dei nemici della patria, ma si intravvede un’idea di Europa che merita di essere perseguita, proprio perché considera ormai insufficiente la dimensione nazionale per risolvere i problemi del presente.

La verità è che la sfida climatico-ambientale rappresenta oggi un’occasione strategica per un cambio nelle politiche economiche nazionali ed europee. È ancora sostenibile il capitalismo neoliberale, in cui il mito del mercato autoregolato ha scambiato libertà per pochi e diseguaglianza per molti?

È ancora predicabile un’economia nazionale, in molti casi arretrata e capace di sopravvivere solo grazie a sussidi statali senza benefici per la collettività, anziché puntare su imprese europee capaci di concorrere sui mercati mondiali?

Il 2035 è una data qualsiasi, ma rappresenta l’orizzonte inevitabile per riprogrammare la politica industriale per un diverso modo di fare impresa e lavoro. Ritardarla non serve. Oggi è il tempo per riscrivere la grammatica di un’economia di mercato adeguata alle emergenze climatiche e alla sopravvivenza dei viventi.

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