Nonostante i negoziati internazionali e i bilanci di sostenibilità delle grandi aziende, il mondo continua a soffocare nella plastica.

Il fiume di polimeri non fa che ingrossarsi, anno dopo anno, e il riciclo non riesce a tenere il passo o a operare su scala: solo una piccola percentuale di quella plastica diventerà materia prima secondaria.

Nessuna emergenza globale continua a procedere indisturbata e non governata come quella della plastica. Secondo il Plastic Waste Makers Index, pubblicato questa settimana dalla Minderoo Foundation, nel 2021 globalmente sono state prodotte 139 milioni di tonnellate di nuova plastica vergine fatta da combustibili fossili: sono 6 milioni in più rispetto alla precedente edizione del rapporto (2019), un chilo in più per ogni abitante della Terra.

Si tratta di un aumento che, secondo i ricercatori, è dovuto principalmente alla fame di packaging e imballaggi. Di questi 139 milioni di tonnellate, solo il 2 per cento potrà essere riciclato. Il resto finirà bruciato o in discarica, e da lì negli ecosistemi e negli oceani.

La crescita della plastica vergine è 15 volte più veloce di quella della plastica riciclata. La plastica è l’anello di congiunzione delle crisi, è allo stesso tempo un problema ecologico di inquinamento su vasta scala e un problema climatico, la plastica è un bene rifugio per l’industria oil and gas.

Come spiega Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace, «l’ultimo rapporto della Minderoo Foundation conferma ancora una volta quanto le crisi ambientali dell'inquinamento da plastica e dell'emergenza climatica siano due facce della stessa medaglia, entrambe riconducibili allo sfruttamento di idrocarburi come petrolio e gas fossile di cui le industrie dei combustibili fossili come Exxon, Shell e Eni sono i principali responsabili. Se la crescita della produzione di plastica continuerà saremo sempre più lontani dal raggiungimento dell'obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C».

Partite in gioco

I combustibili fossili stanno stravincendo questa partita e il Plastic Waste Makers Index ci ricorda ancora una volta come da questa crisi non possiamo sperare di uscirne riciclando.

«Le aziende petrolchimiche stanno espandendo la loro capacità di riciclo solo nei mercati dove le condizioni economiche sono più favorevoli, la domanda di sostenibilità dei consumatori è più alta e le legislazioni sono più progressive».

Insomma, nella minoranza del mondo, come l’Ue, dove il bando a diversi oggetti in plastica monouso ci ha illuso che potessimo in qualche modo uscirne localmente.

Tra le altre isole globali di (relativa) virtù che provano a liberarsi dalla plastica c'è la California, che ha fissato i suoi obiettivi, molto più ambiziosi di quelli degli Stati Uniti: riduzione della vendita di confezioni e imballaggi in plastica del 25 per cento entro il 2032. Il resto è ancora discarica.

Per questo l’orizzonte più importante è quello della politica globale: a maggio ci sarà il nuovo round dei negoziati Onu, con il mandato di arrivare a un trattato internazionale sul modello dell'accordo di Parigi entro due anni.

Dopo un momento di ottimismo la scorsa primavera, quando a Nairobi sembrava essersi creato l’innesco politico giusto, la situazione è tornata a essere di stallo tra due modelli e due letture opposte della crisi.

Da un lato c’è il blocco di paesi (pochi) e della società civile che vorrebbero mettere un freno a monte, alla produzione e all'offerta di plastica. Dall’altro c’è il blocco industria e grandi economie, che vorrebbero puntare tutto su riciclo e pulizia degli oceani.

Un’altra faglia è tra chi (come gli Stati Uniti) vorrebbe un accordo in cui ogni paese stabilisce i propri target nazionali, proprio sul modello dell'accordo di Parigi per il clima, e chi (come l’Unione europea) vorrebbe dei livelli minimi obbligatori globali, con meno margine per svincolarsi concesso alle singole economie.

Tra le raccomandazioni contenute nel Plastic Waste Makers Index c’è la creazione di una sorta di nuovo fondo loss and damage (quello istituto a Cop27) da applicare per aiutare i paesi con gli ecosistemi più compromessi dall'inquinamento da plastica, da finanziarie con i profitti delle aziende più responsabili di questa crisi.

Un’idea ambiziosa, ai limiti dell’impensabile, ma anche il fondo loss and damage per il clima è stato a lungo considerato impensabile e irricevibile, fino all'assemblea plenaria finale di Sharm el-Sheikh a novembre, dove è diventato realtà.

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