A un anno dalle elezioni politiche torna alla ribalta il tema del regionalismo differenziato. Si riparte da dove il discorso si era interrotto, all’inizio del 2020, con l’insorgere della pandemia. A giudicare dalla bozza di legge quadro diffusa dal ministro per gli affari regionali, il tempo sembra essersi fermato.

L’approccio a una riforma suscettibile di cambiare profondamente la natura del nostro ordinamento è lo stesso proposto due anni fa, in cui la questione viene di fatto derubricata a secondaria e affidata a trattative bilaterali tra governo e regioni, in ordine sparso, senza una discussione di sistema.

Eppure se qualcosa l’esperienza della pandemia dovrebbe aver indotto è, almeno per la sanità, l’urgenza di una riflessione sui limiti del nostro regionalismo. 

L’autonomia differenziata

Il punto di partenza è la richiesta, avanzata sul finire della scorsa legislatura da tre regioni, di maggiore autonomia per un gran numero di materie: 23 per il Veneto, 20 per la Lombardia, 16 per l’Emilia-Romagna.

Le richieste si basano sulla disposizione dell’art. 116 della Costituzione, che prevede la possibilità di riconoscere alle regioni a statuto ordinario “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” nelle materie di legislazione concorrente tra stato e regioni (per le quali, come nel caso della sanità, già oggi spetta allo stato solo la determinazione dei principi fondamentali) e in tre materie di competenza legislativa esclusiva dello stato: organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Cosa chiedono le tre regioni? Una valutazione nel merito non è agevole sulla base dei documenti ufficiali.

Le ragioni della differenziazione

Nelle bozze di intesa pubblicate nel febbraio 2019 dal Dipartimento per gli affari regionali compare solo l’elenco delle materie per le quali verrebbero attribuite “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.

Ci si chiede quale autonomia ulteriore nei «rapporti internazionali e con l’Unione europea della regione», nel «commercio con l’estero» o nell’ «ordinamento sportivo»?

Un’estensione che renda semplicemente di competenza esclusiva delle Regioni le materie che oggi sono a competenza legislativa concorrente (e a competenza concorrente quelle oggi a competenza esclusiva dello stato)? Oppure un’estensione che riguarda particolari aspetti di quelle materie? Non si sa.

E ancora: quali sono le ragioni che richiedono una differenziazione tra regioni per queste materie?

Unica giustificazione della richiesta è l’affermazione apodittica (in tutte e tre le bozze) secondo cui «l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia corrisponde a specificità proprie della Regione e immediatamente funzionali alla sua crescita e al suo sviluppo».

Cosa giustifica ulteriori forme di autonomia, ad esempio, nella materia delle «grandi reti nazionali di trasporto e di navigazione» o nella «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia»?

Le motivazioni per una differenziazione in queste aree sono sufficientemente solide da controbilanciare i costi in termini di frammentazione della gestione di specifiche attività pubbliche e della fornitura di particolari servizi ovvero, detto in altre parole, delle ricadute sul funzionamento dello stato e delle altre regioni?

Nel maggio 2019 sono circolate, informalmente, bozze aggiornate più dettagliate. La lettura non aiuta a fugare le perplessità.

Compaiono richieste su una serie di funzioni per le quali manca del tutto il carattere di “bene pubblico locale” (vale a dire, con effetti limitati a un territorio circoscritto) che ne giustificherebbe l’attribuzione e quindi la differenziazione tra regioni: solo per fare alcuni esempi, l’acquisizione al demanio regionale della rete ferroviaria e autostradale e l’approvazione delle infrastrutture strategiche anche di competenza statale; competenze statali in materia di immigrazione; il sostegno alla ricerca spaziale e aerospaziale; la definizione dell’equivalenza terapeutica tra medicinali.

Ma soprattutto sono da considerare a un livello sistemico le richieste molto ampie, con effetti potenziali sull’unità giuridica ed economica della Repubblica, in settori quali l’istruzione (dal personale alla definizione dei curricula), l’università (con la richiesta di un pervasivo ruolo di coordinamento), i beni culturali (con il trasferimento delle funzioni esercitate dalle Soprintendenze), la finanza locale (con l’allocazione delle funzioni dei comuni, incluse quelle fondamentali).

Venti regioni a statusto speciale

Peraltro, in assenza di una definizione dei criteri di accesso al regionalismo differenziato, il processo è destinato ad estendersi a tutte le regioni (a fine 2019 risultavano pervenute le richieste di altre sei regioni e annunciate quelle di ulteriori quattro). Rischiamo insomma di ritrovarci, alla fine, con venti regioni a statuto speciale, dove agli attuali venti sistemi sanitari si affiancheranno venti sistemi scolastici.

Dovrebbe essere ovvio che un processo con implicazioni potenziali ampie come quelle descritte non può svolgersi, in modo opaco, in tavoli tecnici separati ministeri-regione ma deve coinvolgere in modo trasparente il complesso delle regioni e, soprattutto, il parlamento e l’opinione pubblica.

La bozza di legge quadro diffusa lo scorso aprile prevede che ogni schema di intesa, sottoscritto da governo e regione, venga trasmesso alla Commissione parlamentare per le questioni regionali per un parere, acquisito il quale viene approvato dal Consiglio dei ministri (con la partecipazione del Presidente della Regione) un disegno di legge “di mera approvazione dell’intesa” (ovvero non emendabile) sul quale le Camere deliberano a maggioranza assoluta.

Si mantiene, insomma l’approccio già proposto nelle intese preliminari sottoscritte alla fine della scorsa legislatura dal governo Gentiloni: approvazione seguendo il procedimento «ormai consolidato» per le «intese tra lo Stato e le confessioni religiose».

Una bella premessa per capire come viene percepito il carattere unitario del Paese. Insomma, bulimia regionale favorita dalla presenza di partiti politici nazionali che sembrano essere tali solo nella forma, nella sostanza a loro volta regionalizzati.

E’ necessaria, invece, una vera legge quadro di interpretazione dell’art. 116,  che circoscriva l’ambito delle materie trasferibili (per dirne una, escludendo quelle, ad esempio la distribuzione nazionale dell’energia, che i progetti di revisione costituzionale del centrodestra del 2005 e del centrosinistra del 2016 concordavano nel voler trasferire dalla competenza legislativa concorrente a quella esclusiva dello Stato), chiarisca la natura delle motivazioni accettabili a favore della differenziazione, individui gli ambiti per i quali si può semplicemente procedere con l’attribuzione di competenze amministrative senza toccare quelle legislative e che, infine, approfondisca il tema del finanziamento (un argomento che per motivi di spazio non è stato qui affrontato).     

       

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