Le banche sono una specie di termometro della salute economica di un paese, perché l’andamento del credito riflette il grado di fiducia di imprese e famiglie nel proprio futuro: si prende a prestito se si ritiene di poter onorare il proprio debito.

L’indice dei titoli bancari europei, dopo aver perso metà del valore, è oggi appena il 2 per cento al di sotto del livello pre Covid (fine 2019), poco distante dall’indice generale. Tra le banche italiane, Intesa è ritornata ai livelli pre Covid, mentre l’andamento delle altre nello stesso periodo è stato dominato dalle indiscrezione su ipotesi varie di fusioni e acquisizioni, che hanno avvantaggiato Bpm (+ 26 per cento rispetto a fine 2019) e nociuto a Unicredit e Bper (rispettivamente, - 23 e -35). I valori delle banche in borsa dipendono prevalentemente dalle prospettive dell’economia e dalle attese circa la politica monetaria della Bce: pertanto la dinamica dei prezzi riflette il convincimento del mercato che le conseguenze economiche della crisi da Covid nell’Eurozona saranno presto riassorbite, senza strascichi duraturi, e che le politiche messe in atto da Bce e governi sosterranno questo scenario di crescita.

Valutazioni coerenti con le previsioni di consenso, con un Pil dell’Eurozona in crescita quest’anno del 4,1 per cento (4,3 per l’Italia), e del 4 nel 2022, in linea con gli Usa. Sempre stando al consenso, la ripresa globale sarà sostenuta dal mantenimento di politiche monetarie espansive, con i tassi di intervento delle banche centrali invariati fino al 2023 (a 0,25 negli Usa e -0,5 nell’area euro).

Crisi asimmetrica

Il primo rischio che il mercato minimizza è lo strascico di sofferenze che seguirà alla crisi. L’analisi prevalente è che non esista un rischio sistemico per le banche europee, perché la crisi è stata asimmetrica, come lo è stata la politica degli accantonamenti delle banche nei vari paesi. A differenza delle crisi precedenti, il crollo dell’attività economica si è infatti concentrato nei settori legati a tempo libero, ristorazione-alberghiero e commercio al dettaglio, mentre sono rimasti relativamente indenni quelli manifatturiero, industriale, servizi alle imprese e di pubblica utilità, grande distribuzione e immobiliare, che sono anche quelli verso i quali le banche hanno la maggiore esposizione. Dato confermato dall’andamento dei crediti in moratoria (regime che finirà quest’anno) e con garanzia statale, poiché coinvolgono debitori in temporanea difficoltà e quindi costituiscono un buon previsore dell’evoluzione futura delle sofferenze.

Alcune analisi mostrano come le garanzie statali siano state concesse prevalentemente a imprese medio-grandi con livelli di indebitamento sostenibili: è pertanto probabile che questi crediti in larga parte rimarranno in bonis (di fatto sono rifinanziamenti a tassi più vantaggiosi). Il problema potenziale è nei crediti in moratoria perché erogati prevalentemente a famiglie e piccole imprese, e ancora in crescita in tutta l’Eurozona nel quarto trimestre, prima della seconda ondata Covid. A fine 2020, tuttavia, la percentuale di questi crediti ancora in moratoria rispetto al totale dei prestiti nell’Eurozona era molto contenuta (dal quasi zero della Germania all’1 per cento di Francia e Belgio) salvo che in Italia (6 per cento) e Spagna (2,5), paesi che per la caratteristica delle loro economie (maggiore esposizione al turismo e tempo libero) e la numerosità di imprese individuali e di piccole dimensioni sono stati più colpiti; ma anche quelli dove le banche hanno fatto minori accantonamenti rispetto alla media storica. Le sofferenze quindi non costituiscono un rischio sistemico per l’Eurozona, ma un elemento di relativa debolezza delle banche italiane (e spagnole), che le eventuali fusioni di cui si parla non risolvono, ma addirittura potrebbero aggravare se, per migliorare le valutazioni in ottica negoziale, non si adottassero criteri prudenziali. Sarebbe invece auspicabile che le nostre banche approfittassero della congiuntura favorevole dei mercati per accelerare gli accantonamenti.

Inflazione

Lo scenario di una forte ripresa nell’Eurozona, continuamente rivista al rialzo, e che troverà il suo apice nella seconda metà dell’anno, rende probabile l’inizio della riduzione degli acquisti dei titoli di stato da parte della Bce già a partire da luglio, specie se i nuovi dati confermassero la solidità della ripresa, l’eliminazione delle restrizioni Covid per la stagione estiva, e l’accelerazione del piano vaccinale. Dagli 83 miliardi di acquisti ad aprile è ipotizzabile che si scenda a 40 a fine anno, con una dinamica analoga a quella del secondo semestre dello scorso anno.

La forza della ripresa rende invece poco credibile lo scenario di consenso per l’inflazione con un picco quest’anno all’ 1,6 per cento, per poi ridiscendere all’1,3 nel 2022, specie alla luce del dato americano di aprile, 4,2 per cento, di gran lunga superiore alle attese. Una riduzione degli acquisti Bce e un aumento delle aspettative di inflazione causeranno un rialzo generalizzato dei rendimenti dei titoli in euro, specialmente sul lungo termine, rendendo la curva dei tassi molto più ripida, visto che la Bce manterrà inalterati quelli ufficiali a breve. Un rialzo peraltro già iniziato, anche perché i tassi negativi fino a 10 anni nel mercato principale dei Bund non sono più giustificabili; e che trascinerà al rialzo anche quelli sui Btp visto che la Bce interviene per stabilizzare lo spread, non il livello dei tassi tedeschi.

Banche e finanza pubblica

Una curva più ripida migliora il margine di interesse delle banche perché possono lucrare il divario crescente tra rendimento degli investimenti a più lunga durata e il costo nullo o negativo dei depositi. Per le nostre banche però, può essere un’altra fonte di debolezza se l’aumento dei tassi dei Btp, assieme ai minori acquisti della Bce, diventassero una fonte di stress per i conti dello Stato, visto che detengono un quarto del suo debito (tra titoli e prestiti), e nonostante abbiano dimezzato, stando gli ultimi dati, i 67 miliardi di titoli acquistati da inizio pandemia.

Se veramente si vuole l’unione bancaria bisogna spezzare il legame tra banche e finanza pubblica, altrimenti è utopistico immaginare che depositi tedeschi finanzino il debito pubblico italiano, o di altri paesi. Bisognerebbe invece fornire alle banche europee un unico safe asset in euro invece dei titoli di stato dei vari paesi: un ottimo candidato esiste ed è il debito comunitario per finanziare il Next generation Eu. È una priorità per il futuro del sistema finanziario dell’Eurozona del post Merkel.

Solo l’unione bancaria, incentivando le aggregazioni transnazionali, con le conseguenti economie di scala, premetterebbe poi di risolvere l’intrinseca debolezza della scarsa redditività del sistema europeo: anche per il 2022 gli analisti stimano una redditività media sul capitale di poco superiore al 6 per cento, ancora insufficiente e inferiore al 10 delle americane.

 

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