Per tantissimi anni, ogni volta che ho avuto occasione di esprimere un desiderio, ho chiesto una Barbie. Non me ne fregava niente della pace nel mondo, o che i miei genitori tornassero insieme, io volevo solo possedere quante più Barbie fosse umanamente possibile.

La notte di San Lorenzo mi sdraiavo in giardino sperando di vedere almeno una stella cadente: nel mio cervello non del tutto formato una stella argentata sarebbe piovuta dal cielo proprio lì, a Focene, e si sarebbe conficcata nella terra con una Barbie perfettamente imballata e assicurata a una delle cinque punte.

A ogni coccinella, ciglio caduto, candelina spenta io non avevo dubbi su cosa chiedere all’universo. Una, dieci, cento Barbie, possibilmente da collezione, possibilmente molto costose. Mio padre mi aveva insegnato a calcolare i soldi in Barbie così quando faceva gli straordinari, per esempio, mi diceva «questa domenica mi sono sudato tre Barbie» o «anche stavolta due Barbie ce le siamo portate a casa» e così via.

Persino Gesù Bambino non era esente dal mio materialismo: mia nonna mi faceva dire le preghiere tutte le sere e io, con le manine giunte e il capo chino, dentro di me covavo solo un pensiero martellante, un nome che era sinonimo di felicità: Barbie, Barbie, Barbie.

Il camper di Barbie

Volevo tutte le Barbie e volevo tutto di Barbie. Il salone di bellezza di Barbie, il maggiolino di Barbie, il più ambito e mai posseduto castello di Barbie, che invece aveva una mia compagna di classe con cui avevo instaurato un’amicizia di convenienza, solo per garantirmi l’accesso a palazzo.

Ad oggi, se casa dei miei andasse a fuoco, so esattamente cosa salverei: il camper di Barbie. Correrei in garage tra le fiamme e andrei dritta al camper – bellissimo, intonso, tenuto come un uovo Fabergé per tutta la vita – lo avvolgerei in una coperta e scapperei, lasciando bruciare senza rimorsi tutte le mie vecchie pagelle e i diari di scuola e forse anche la mia famiglia.

Vorrei dire che ho anche molte Barbie da salvare, ma purtroppo nel corso dell’ultimo trasloco mi lasciai convincere a donarle tutte tranne una, la mia preferita, una Barbie qualunque senza niente di speciale a cui però avevo cucito addosso un vestito da sera con le mie mani. Quella povera Barbie superstite sarebbe finita decapitata da un amico di mio fratello, l’unica persona che io abbia mai meditato di assassinare.

E a proposito di Barbie povere, tra i ricordi più felici della mia infanzia ci sono le sere in cui mia mamma mi leggeva Povera Barbi (sic, evidentemente non autorizzato dalla Mattel) di Chiara Rapaccini, una parabola di rovina e rinascita con Barbie protagonista, testo fondativo della mia formazione e temo di quella di nessun altro (è purtroppo fuori catalogo).

Era consigliato dai tredici anni in su, ma mia madre me lo leggeva a cinque anni perché credo facesse ridere soprattutto lei. È pur sempre la stessa persona che mi fece vedere Dancer in the dark di Lars von Trier a otto anni perché non è mai troppo presto per conoscere la pena di morte e il disagio sociale di Björk, ma neanche per ridere di Ken.

Il film

Con queste premesse nostalgiche giovedì sono andata a vedere il film di Barbie diretto da Greta Gerwig, pronta ad amarlo fortissimo per una serie di ragioni, prima fra tutte l’aggressività della promozione che l’ha accompagnato per mesi e che per quanto mi riguarda ha funzionato egregiamente: priva di difese di fronte a una qualsiasi buona campagna pubblicitaria, sono il bersaglio ideale del marketing più becero.

Se scrivi “nuovo gusto” su un prodotto io lo comprerò, se mi bombardi di meme su Barbie io lo vorrò vedere. Giovedì sera era evidente che non avesse funzionato solo con me. L’Anteo, storico cinema milanese, baluardo di civiltà, che da anni frequento assiduamente e che anche per questo mi sentirei di definire un po’ da stronzi, nel miglior senso possibile (per capirci: due sere prima ero a vedere Monster di Kore’eda in giapponese e la sala era murata di gente nonostante la flebile aria condizionata) giovedì era pieno di giovani vestiti di rosa, un bel colpo d’occhio rispetto agli over cinquanta che spesso popolano l’Anteo, vestiti di beige.

In sala, prima del film, sembrava di stare in gita di classe alle medie, un clima che in qualsiasi altra circostanza mi avrebbe turbato e che invece mi ha trasmesso uno strano calore nel petto. Si spengono le luci e parte un applauso gasato, qualcuno lancia urletti di eccitazione (io mi trattengo a malapena). Quand’è l’ultima volta che ho assistito a questo entusiasmo al cinema? Da quanto tempo un film non era un evento? Me lo ricordo per Star Wars: il risveglio della forza nel 2015 e poi più, ma può darsi che mi sia persa qualche altro filmone mentre in questi anni guardavo film giapponesi vestita di beige. Eppure giovedì ero lì anch’io, non particolarmente giovane e un po’ più in controllo delle mie emozioni, ma comunque molto felice di prendere parte a questo momento di esaltazione collettiva.

Sono uscita dal cinema di buonumore, dopo due ore di intrattenimento purissimo e di colori saturi che mi hanno riportato indietro nel tempo, al camper, alle preghiere, a Chiara Rapaccini (che non era andata lontanissima dal mondo immaginato da Gerwig), alla Barbie sirena che prestai a un’amica e tornò a casa con la faccia blu e i capelli corti, rovinandomi la vita. Non mi è stato per niente difficile ignorare i momenti più didascalici per godermi il film per quello che è: una roba fatta bene, piena di idee.

All’uscita ho sentito una signora in beige dire che sì, bello, ma non ci porterebbe la figlia di otto anni. Onestamente non capisco perché: Barbie è tutto quello che avrei voluto vedere, a otto anni (ma anche a trentuno). Sicuramente più di Bjork nel braccio della morte.

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