La presentazione del mio primo romanzo a Rozzano, il paese dell’estrema periferia milanese in cui sono cresciuto e che ho raccontato nei miei libri, due anni fa era stata annullata all’improvviso. Quella del secondo si è rivelata un’imboscata.

16 settembre 2020: sto per prendere il treno alla stazione di Pesaro per tornare a Milano. Mi arriva un messaggio su WhatsApp con cui vengo avvisato che la presentazione di Febbre, prevista di lì a breve alla biblioteca comunale di Rozzano, deve essere rinviata a data da destinarsi a causa di non meglio precisati «problemi organizzativi».

Coincidenza vuole che il giorno prima fosse uscito il primo numero di Domani, per il quale avevo scritto un reportage sull’inizio dell’anno scolastico a Rozzano dopo i difficilissimi mesi del lockdown (mesi difficili per tutti, ma in alcuni posti di più).

Un pezzo corale, che raccoglieva le ansie e le preoccupazioni di genitori e insegnanti di un paese di 45mila abitanti, la maggior parte dei quali stipati nelle case popolari. Si parlava di abbandono scolastico (a Rozzano alcuni educatori mi hanno raccontato che è il più alto del nord Italia), di ragazzini divenuti irraggiungibili, di vite e famiglie di cui non parla nessuno.

Nei giorni successivi sono venuto a sapere da fonti non ufficiali che l’amministrazione (di destra) avrebbe ritenuto l’incontro “non appropriato”: condivisi l’accaduto sui social, mi scrissero diverse persone e istituzioni del mondo editoriale offrendomi supporto per organizzare una nuova presentazione slegata dagli spazi del comune. Non me la sono sentita.

L’incontro annullato non è più stato recuperato, nessuno è profeta in patria eccetera eccetera: ci ho messo una pietra sopra. Sono molto legato alla biblioteca di Rozzano: è il posto che per certi aspetti mi ha salvato, anticipando, attraverso i libri e la lettura, lo spostamento identitario che avrei poi tentato di realizzare crescendo, ma trovo che imporre la propria presenza di fronte a un rifiuto sia una fatica per tutti.

Regolamento di conti

Dopo due anni siamo arrivati all’uscita del mio secondo romanzo, Corpi minori, per il quale la presentazione è stata fissata, sì, anche se qualcuno deve averla vista più che altro come la possibilità di un regolamento di conti.

Il mese scorso, arrivato sul luogo una mezz’ora prima dell’evento, le bibliotecarie mi hanno subito precisato che loro avrebbero preferito un altro relatore: quello con cui avrei interagito era stato invece imposto dall’alto.

La sala – la stessa in cui si è sposata mia madre, il che ha irrobustito l’effetto drammaturgico da parabola del figliol prodigo – era gremita: oltre un centinaio di persone che sono finite ad assistere a una scena deprimente. Del romanzo non si è di fatto parlato, il tutto si è svolto come una specie di contraddittorio politico, come se io fossi un avversario, un esponente dell’opposizione da delegittimare – vale l’equivalenza culattone uguale comunista – in difesa dell’onore cittadino.

Domande provocatorie (ma senza ironia), pettegolezzi e argomenti ad personam che hanno generato un clima teso e indigesto a molti dei presenti, dato che mi sono trovato nelle condizioni di dovermi difendere in un crescendo emotivo, con mia madre e mia nonna che piangevano in prima fila.

Molti poi mi hanno chiesto se fossi deluso, arrabbiato: in realtà è prevalso in me un misto di conferma di ciò che mi aspettavo e di desolazione per l’ingenuità di chi pensava di trovare nel pubblico, in quel pubblico, una spalla, complicità.

Era facilmente prevedibile che i presenti, lettori dei miei libri, sarebbero stati di tutt’altro avviso: finita la presentazione e iniziato il firmacopie, infatti, il relatore e un esponente del comune suo amico si sono defilati senza neppure salutare, a causa dei malumori – e degli insulti – che hanno preso a raggiungerli (in prima linea una mia professoressa di inglese delle medie che non ha celato il suo ardore partenopeo).

Mentre il telefono mi vibrava per i messaggi in direct dei rammaricati – “Mi dispiace per quello che è successo”, “eravamo tutti imbarazzati”, “avremmo voluto parlare del tuo lavoro ma non c’è stato modo” – le bibliotecarie, provate, sono venute a scusarsi: «I bambini invisibili di cui parli noi li vediamo tutti i giorni, e non è facile. Se vorrai tornare ti inviteremo di nuovo, magari stavolta a parlare del libro». E la mia agente, presente anche lei in sala, mi rassicurava: «Più che una presentazione è stata una rappresentazione», una fotografia.

Rifiutare la realtà

Il suo riferimento era qualcosa a cui alludo spesso: il mancato rapporto con la verità quando si ha a che fare con le periferie e più in generale i luoghi ad alta fragilità.

Chi li governa minimizza e si irrigidisce di fronte alle cronache e ai resoconti mediatici di come stanno le cose, ma purtroppo anche chi ci vive tende a rifiutare con forza la realtà, a causa di qualcosa di comprensibile e umano, che ha a che fare con l’autostima, il fastidio nel sentirsi identificati coi margini, coi gradi inferiori della piramide sociale.

E allora attaccano i caroselli retorici secondo cui a Rozzano – o a Quarto Oggiaro, a Porta Palazzo, Tor Bella Monaca, Begato, Librino, Scampia e l’elenco può essere esteso a piacere – c’è tanto altro, gente perbene, tanti servizi, e “non è più come una volta”.

Chi dice le cose come stanno diventa un nemico, dato che resta verissimo il motto leopardiano: «Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina».

È chiaro però che affinché si dia cambiamento è necessario che prima le cose vengano almeno viste, riconosciute, e invece sembra che politica e società civile in alcuni contesti operino sinergicamente, in modi diversi ma paralleli e conniventi, per mantenere lo status quo fatto di disuguaglianze e orizzonti contratti.

Un orizzonte contratto che conosco bene, perché ci sono cresciuto dentro, fatto di senso alterato delle possibilità e di distanze deformate: vivevo a cinque, sei chilometri da Milano, e tutti nella mia famiglia ne parlavano come se si trovasse in un’altra regione. Io all’immensità di quella separazione non ho mai creduto, ma non ho merito per questo: la vivo come una specie di mutazione genetica.

Sono nato con l’idea che quella distanza poteva essere colmata, che quel movimento – reale, ideale – l’avrei compiuto. Penso però sia odioso e ingiusto che ancora oggi, se sei nato in certe zone, per combinare qualcosa tu debba essere un’eccezione, debba disporre di un anomalo serbatoio di risorse, determinazione, immaginazione. Perché serve molta, moltissima immaginazione per pensarsi in modo diverso invece che assumere la forma di ciò che ti sta attorno.

Parlare del male

Se i posti come quello in cui sono cresciuto io sono stati creati – in fretta, con materiali scadenti – in un certo momento storico per rispondere a determinate esigenze dell’epoca (come la pressione migratoria dal centro-sud), poi si sono sclerotizzati, dando vita a dei microcosmi specifici e chiusi, di cui pochissimo si conosce all’esterno. 2

Qui sta la responsabilità di tutta una classe dirigente che nei decenni ha trattato i quartieri e i comuni come il mio come ripostigli, dimenticatoi, musei dei poveri, non attuando nessuna reale trasformazione.

Ammassare nello stesso punto del mondo persone e famiglie con storie e problemi troppo simili non può che generare circoli viziosi, in cui il vicino al massimo ti darà il cattivo esempio.

Allora bisogna parlare del male, perché le condizioni ambientali ideali per la sua proliferazione sono proprio il silenzio, la rimozione, la vergogna: un fenomeno non cessa di esistere o produrre effetti nefasti se viene omesso, eliso dalla coscienza comune.

Anzi, è proprio in questo mancato rapporto con la verità che la disuguaglianza trova il suo alleato più formidabile, è proprio in questo tipo di nascondigli cognitivi e dialettici condivisi da governati e governanti che le cose, per chi non viene visto, possono restare uguali a sempre, in una solitudine che gli stessi oppressi, in una specie di nefasto cortocircuito masochistico, tendono ad alimentare.

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