Il Partito democratico si sarebbe dovuto ispirare, nelle intenzioni dei suoi promotori e soprattutto del suo primo segretario, Walter Veltroni, all’omonimo partito americano. Una suggestione a metà strada tra l’innovativo e il provinciale. Trapiantare in Europa, e in particolare in Italia, un modello politico di un altro continente era molto problematico. Storia, tradizione, cultura politica, sistema istituzionale ed elettorale, tutto congiurava per una scarsa adattabilità di quella esperienza al contesto italiano. Invece, prevalse il desiderio di nuovismo, insieme ad una infatuazione ingenua per l’ America. E non era nemmeno estraneo il desiderio degli ex-comunisti di mondarsi una volta di più, e sperabilmente una volta per tutte, dal loro vizio d’origine, seguendo le orme dello Zio Sam.

Di quel riferimento d’oltre oceano sono rimaste le primarie, feticcio intangibile di una mal compresa democratizzazione della vita politica interna. Eppure qualcosa si potrebbe prendere, con adeguato grano salis, dall’esperienza del partito democratico statunitense. La cronaca di questi giorni ce ne offre un esempio.

L’ondata di scioperi che sta attraversando i paesi industriali avanzati, dopo aver investito Germania, Gran Bretagna e Francia, in ordine di intensità e durate crescente, è arrivata anche negli Stati Uniti. Piegati da lustri di inattività o soggiogamento i sindacati hanno rialzato la testa e riacceso la conflittualità sociale. In Europa i partiti di sinistra non si sono sempre posti a fianco di queste iniziative, sia perché frenati dalla sua presenza al governo (in Germania), sia perché in crisi di identità (in Francia, tanto che sulle proteste ha cercato di metterci il cappello l’estrema destra), sia perché paralizzati dalla paura di scontentare qualcuno nella sua marcia di avvicinamento a Downing Street (in Gran Bretagna).

Negli Usa, invece, non solo il partito democratico ha affiancato il sindacato ma lo stesso presidente Joe Biden, cappello da baseball e giubbotto è andato ad arringare i picchetti operai alle fabbriche automobilistiche con il megafono in mano. Una immagine ben lontana dai canoni di Wall Street.

In Italia i dirigenti Pd sono ben più timidi. Certo, si sono mobilitati in occasione di licenziamenti di massa e chiusure di fabbriche, ma non a sostegno di rivendicazioni salariali, appoggiando spassionatamente corposi aumenti salariali. Basterebbe questo per render conto della deriva del Pd. Ma vanno ricordate anche le parole del segretario piddino Matteo Renzi quando magnificava l’amministratore delegato della Fiat in contrapposizione ai sindacati. Con quell’atteggiamento, e altri di contorno, il partito che si suppone interprete delle domande della classe operaia e dei sotto-privilegiati prende le parti dell’ ”avversario di classe”, si è giocato per molto tempo il sostegno dei ceti più deboli.

A detta di alcuni, il Pd di Elly Schlein si sarebbe spostato a sinistra, anzi sarebbe diventato massimalista (rinverdendo un linguaggio di inizio Novecento…) e avrebbe messo la sordina alla sua anima riformista. Di questa anima c’era traccia nel programma del governo Prodi (2006-2008), interpretata al meglio dalle riforme di Pier Luigi Bersani, e nella apertura ai diritti civili del governo Renzi. Ma sul piano economico-sociale sono piovute delle contro-riforme, orientate in senso contrario alle aspettative delle componenti più sfavorite della società. Un partito di sinistra oggi dovrebbe riprendersi dall’idolatria del mercato e riscoprire che esistono interessi diversi, che, se non si risolvono con una buona concertazione, portano, inevitabilmente, al conflitto tra le parti. E un partito di sinistra sa, naturaliter, qual è la sua parte.

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