La presidenza Trump è stata nefasta per mille e una ragioni, ma anche in un deserto spunta qualche fiore. Uno riguarda la pandemia. Trump si è mosso su un doppio binario. Da un lato un negazionismo allucinato sul piano pubblico, dall’altro, finanziamenti a pioggia per la ricerca di terapie e vaccini.

L’altro fiore è nato sui campi medio orientali. Anche qui un doppio binario: disinteresse assoluto per la Siria (e la Libia) e promozione di storici accordi di pace tra Israele e stati arabi e musulmani, oltre a un tentativo – goffo, ma sempre meglio di niente – di affrontare la questione palestinese con il piano Kushner. 

I resti del multilateralismo

Nonostante un innegabile successo su quest’ultimo versante, la politica estera trumpiana è stata inghiottita da un buco nero gigantesco: l’abbandono del multilateralismo. Più che il ritorno a una antica pulsione isolazionista dei tempi passati, l’amministrazione Trump voleva dimostrare di poter fare a meno di tutto e tutti grazie allo status di unica “iperpotenza”.

Dall’Oms alla Cop21 sul clima, si sono moltiplicate le uscite dallo scenario multilaterale, per finire con una gelata nel rapporto con l’Europa. Non una novità assoluta, se ricordiamo le tensioni intraeuropee create da George W. Bush al momento dell’invasione dell’Iraq nel 2003, quando il segretario di stato Donald Rumsfeld esaltò la frattura tra la vecchia Europa, incarnata da Germania e Francia che si erano opposte alla guerra, e la nuova Europa della Gran Bretagna (sic) e dei paesi dell’Est che l’avevano appoggiata.

Su un punto comunque Trump aveva ragione: nel ricordare agli europei il loro mancato impegno a destinare il 2 per cento del Pil alla difesa, tanto da minacciare per ritorsione il ritiro delle truppe americane (boutade a cui nessuno credeva).

Tutte le volte che gli europei provano a fare da soli, ipotizzando una qualche forma di difesa comune autonoma, ecco che scatta tutto il complesso militare industriale americano e della Nato a lanciare l’allarme e richiamare all’ordine.

Basti ricordare cosa successe all’indomani della firma di un accordo strategico sulla difesa siglato tra il presidente francese Jacques Chirac e il premier britannico Tony Blair, a Saint-Malo nel dicembre del 1998: tuoni e fulmini scagliati dall’allora segretario di stato di Bill Clinton, Madeleine Albright. E non se ne fece nulla. Anche se l’ipotesi di un esercito comune convince il 55 per cento degli europei e il 75 per cento si augura una politica di sicurezza comune (dati Eurobarometro 2017).

Il presente

Joe Biden apre una nuova fase. Lo testimoniano il rientro immediato degli Usa in tutti gli organismi Onu e nella convenzione di Parigi sul clima, il rinnovo del trattato Start di limitazione delle armi nucleari con la Russia, la riapertura del ponte con l’Europa con la partecipazione del presidente americano alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco e il suo saluto al Consiglio europeo della scorsa settimana. Però meglio non farsi troppe illusioni perché America is back, non suona molto diverso da America first quando sono in gioco gli interessi statunitensi.

Al Consiglio europeo, Joe Biden ha chiarito che per i vaccini vale ancora America first. Solo dopo ce ne saranno anche per l’Europa. Il suo Segretario di stato, Tony Blinken, nel recente incontro della Nato ha minacciato possibili sanzioni ai partner europei - tedeschi in prima fila - che volessero continuare la costruzione del gasdotto del Nord Stream con la Russia. Un atteggiamento arrogante e fuori tono.

Gli europei sanno qual è il loro interesse, e qualora, per una volta, non coincidesse con quello degli Stati Uniti questi devono farsene una ragione. Partnership non significa ubbidienza supina.

Il linguaggio muscolare dell’amministrazione americana verso Russia e Cina, con conseguenti possibili sbavature nei confronti degli alleati, può avere una spiegazione pensando alla politica interna degli Stati Uniti.

Joe Biden sta introducendo in America una serie di riforme di portata storica che ne cambieranno il volto (a dispetto di tutti quei commenti che ne parlavano come un centrista e un moderato senza aver letto il suo programma), e quindi ha bisogno di rafforzare elementi identitari della nazione, enfatizzando una dinamica conflittuale contro i classici nemici esterni.

L’asse del male di antica memoria o il terrorismo islamico delle passate stagioni sono ora soppiantati dai veri competitor globali, quelli che dispongono di potenza economica (Cina) o militare (Russia) in qualche misura confrontabile con gli Usa.

L’individuazione ed enfatizzazione di un nemico potente e credibile contribuisce al quel rally ‘round the flag (raccogliersi introno alla bandiera) che rafforza il governo. Cina e Russia, per ragioni diverse, servono entrambe allo scopo. Che è, anche e soprattutto, interno.

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