Si è dimesso. Con una dichiarazione sobria e sintetica, alle 12 e 30 di giovedì Boris Johnson ha ufficializzato le dimissioni da leader del partito conservatore e di conseguenza da primo ministro. Ma non se ne andrà presto. Anzi, resterà alla guida del governo, presumibilmente fino a ottobre quando arriverà a termine l’iter per l’elezione del nuovo leader.

Era sempre stato chiaro, del resto, che non si sarebbe defilato dalla porta di servizio e in silenzio. Ma lo psicodramma delle ultime settimane fra scandali sessuali “all’italiana” e dimissioni con cifre più simili ai punteggi di una partita di Wimbledon che a una crisi di governo ha superato ogni aspettativa.

Quando usciranno le sue memorie – e stiamone certi che Boris ha già un contratto con un editore – sapremo i più stomachevoli dettagli di queste ultime 48 ore di pura pazzia in cui 59 membri del governo hanno dato le dimissioni, fra cui Rishi Sunak allo Scacchiere e altri ministri chiave, in cui il fidato Michael Gove è stato “licenziato” e il nuovo cancelliere a meno di 24 ore dalla nomina già chiedeva a Johnson di andarsene. Da un lato un’opinione pubblica incredula e un partito laburista gongolante; dall’altro la stampa di destra come l’Express o il nuovo canale di informazione turbo-Brexit GBNews che lo incitavano a resistere urlando ‘dopo di lui solo il diluvio’.

La saga di Downing street è avvincente, ne parleremo ancora per molto tempo. Prepariamo i popcorn. Ma i marchingegni democratici sono creature fragili e complesse, vanno maneggiati con cautela, soprattutto quelli antichi.

Non è un caso che in entrambe le sponde dell’atlantico, i due sistemi politici fondamentalmente basati su una concezione della democrazia come “patto fra gentiluomini” scelti attraverso una modalità elettorale “darwinianamente” maggioritaria hanno mostrato tutti i loro limiti di fronte alla complessità della politica contemporanea e alla necessità di dare rappresentanza e funzionalità a un corpo sociale sempre più frammentato.

Andy Burnham, sindaco di Manchester e leader in ascesa nel partito laburista, soltanto qualche giorno fa ha rilanciato una proposta di riforma elettorale in senso proporzionale. Non è la prima volta che i laburisti si affiancano al Libdem, il partito da sempre sostenitore del proporzionale, per cercare di dare nuova linfa alla democrazia inglese. Magari questa è la volta buona fra crisi economica alle porte, annunci di nuovi referendum secessionisti in Scozia e tensioni latenti in Nord Irlanda. Ma se da un lato il maggioritario secco di Westminster è certamente un retaggio ottocentesco di un’idea di democrazia premoderna, dall’altro è anche quel sistema che grazie alla sua disrappresentatività scoraggia un populista come Johnson a farsi il proprio partitino poiché non riuscirebbe mai a vincere più di 1 o 2 seggi. E questa non è una cosa da sottovalutare.

Servono risposte

Più che i limiti ben noti del First Pass the Post, l’ostinazione di Johnson ha esposto nuove tensioni a cui tutta la classe politica inglese dovrà dare molto presto risposte. La crisi politica è infatti diventata nel giro di poco tempo costituzionale, con un primo ministro che di fronte alla valanga di dimissioni testardamente insisteva a rimanere alla guida di un governo disfunzionale che non aveva nemmeno i numeri per convocare i comitati parlamentari.

Le tensioni istituzionali hanno rischiato poi di diventare una questione di tenuta democratica con gli appelli al presunto ‘mandato popolare’ incarnato da Johnson che lo legittimava a rimanere a Downing street anche a fronte di un parlamento contrario. Fra i più agguerriti sostenitori Jacob Rees-Mogg e grotteschi figuri come Michael Fabricant. Lo stesso ex primo ministro ha fatto un non tanto velato appello al «popolo dei milioni che lo hanno votato» nel suo discorso dimissionario. Una posizione che per un sistema intrinsecamente parlamentare come il modello Westminster è una pura bestemmia costituzionale e che se tirata alle estreme conseguenze rischia di suonare come un richiamo al colpo di stato.  

E ora che succede? Vedremo se quel che rimane del partito conservatore sarà in grado di mettere in moto meccanismi più snelli e veloci per eleggere il nuovo leader, ma si tratterà pur sempre di 5 o 6 settimane che sommate alla pausa estiva rimangono un lungo periodo nel quale da Downing street Johnson proverà a negoziare il proprio futuro.

L’ex primo ministro John Major ha già chiesto al Comitato 1922, l’organo procedurale dei conservatori che gestisce le elezioni interne, di attivarsi ‘per il bene del paese’ e non permettere a Johnson di ‘occupare Downing street’. Presto molte altre voci si uniranno.

Johnson è finito, non c’è alcun dubbio. Ma con le conseguenze istituzionali, coi guasti al già fragile equilibrio costituzionale e coi danni all’immagine internazionale del Regno Unito, con gli effetti della Brexit e i contraccolpi sulla crisi in Nord Irlanda ci dovremo convivere tutti per un po’. Noi qui oltremanica; voi in Europa.

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