«Dobbiamo trasformare la tragedia in una spinta per il cambiamento». Sono le parole con cui ieri, a Padova, Gino Cecchettin, il padre di Giulia, ha trasformato le esequie della ventiduenne in un atto politico. Dopo il ritrovamento del corpo era stata Elena, la sorella, a fare del suo lutto privato un grido collettivo di dolore, rabbia, desiderio di rivolta. E questo desiderio ha dato vita alla marea di corpi che nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 25 novembre, ha invaso Roma e tante città.

Non c’è anfratto della sfera pubblica che non sia stato raggiunto, in queste settimane, dal clamore della protesta, dal richiamo di tutti a una responsabilità nuova di fronte alle donne che perdono la vita per mano maschile. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha parlato di un «cambiamento radicale di carattere culturale» che «chiama in causa le famiglie, l’intera società e gli stessi governi».

Sembra che qualcosa sia davvero cambiato, d’un tratto, nel discorso pubblico sulla violenza. Questa volta sembra impossibile tornare a derubricare le uccisioni di donne come esito di dinamiche disfunzionali nelle relazioni private.

Solo pochi mesi fa una storia in tutto simile a quella di Giulia, la storia di Sofia Castelli, studentessa ventenne all’università di Milano-Bicocca ammazzata a coltellate dal suo ex, era stata rapidamente inghiottita dal silenzio, come tante. Questa volta no.

È come se il fuoco che da tempo brucia sotto la cenere – sotto le processioni, i silenzi, i cordogli rituali per le vittime di femminicidio – avesse preso a divampare, e non volesse spegnersi prima di aver “bruciato tutto”.

Nessun cambiamento, però, è destinato a procedere senza incontrare ostacoli. E il primo, già visibile, è lo spiegamento di forze – politiche, mediatiche, intellettuali – a difesa dello status quo, in forme antiche e nuove: dalla negazione del fenomeno alla manipolazione dei termini della questione.

Un esempio eloquente è il dibattito che si è acceso intorno alla sopravvivenza del “patriarcato” e al suo significato. Una volta reimmesso nel circuito mediatico, un concetto che sembrava ormai polveroso, destinato a sopravvivere solo nelle biblioteche femministe, è divenuto terreno di conflitto tra chi ne nega l’esistenza – “ma quale dominio maschile, quale potere del padre, abbiamo persino una presidente del Consiglio donna!” – e chi pazientemente si impegna a spiegare che il patriarcato è un ordine, un insieme di strutture materiali e simboliche che tende a resistere anche alle trasformazioni del diritto. Sebbene cambi, muti di forma, andandosi a saldare con nuovi poteri economici, politici, sociali.

Quello con cui facciamo i conti è un patriarcato scosso nelle fondamenta, infragilito da oltre un secolo di lotte femministe, ma per questo a tratti più feroce, più violento. Specialmente quando l’insicurezza del futuro e la perdita di legame sociale suscitano, in troppi, un nuovo desiderio d’ordine.

C’è però un altro ostacolo che è interno, non esterno, al movimento femminista: la difficoltà di rendere perdurante ciò che per sua natura tende all’effimero, cioè il potere di convocazione, la forza della piazza.

In un tempo in cui le forme di protesta radicale si incontrano alla ricerca di nuovi terreni di alleanza, sarebbe forse possibile per Non Una di Meno mutuare la formula di successo dei Fridays for Future: ritrovarsi ogni settimana, o ogni mese. Per alimentare il desiderio di esserci, per far crescere la protesta, per non permettere al fuoco di spegnersi.

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