Non siamo più abituati ad avere i morti in casa e men che meno per strada. A malapena li vediamo già trattati per la veglia. È sempre doloroso, ma li conosciamo soprattutto da presentabili, in ordine. Mentre scrivo mi chiedo qual è il punto che desidero dimostrare, perché pare che quando si scrive  ci sia sempre qualcosa che si desidera dimostrare.

Tuttavia c’è una guerra in corso e non me la sento di dimostrare niente. Come ho provato a dire il quattro aprile ad Appunti, il podcast di Domani, davvero non credo che in questo momento le opinioni siano utili. Questo è il tempo della testimonianza e dell’analisi, dell’osservazione e dell’ascolto.

Sarebbe, possibilmente, anche il tempo di coltivare un po’ di silenzio. Ma c’è una guerra e ci sono delle immagini, moltissime, e le immagini fanno venire voglia di gridare.

È verosimile che stiano arrivando in quantità maggiore rispetto a qualsiasi altra occasione di analogo orrore e, per via dei social, sono senz’altro più istantanee dal punto di vista della ricezione. In ordine temporale non siamo i primi a diffondere immagini di guerra, e non siamo neanche i primi a interrogarci su cosa queste significhino.

I gradi di separazione

Davanti al dolore degli altri (nottetempo) è un saggio del 2003 in cui Susan Sontag analizza la rappresentazione della sofferenza altrui, specie attraverso il mezzo fotografico, specie in contesti bellici. È un libro da leggere e rileggere dalla prima all’ultima riga, ma c’è un punto su cui, in particolare, vorrei soffermarmi. Il concetto di base è che non si perde interesse per la tragedia altrui solo per sovraesposizione, ma anche per paura.

C’è una guerra, dunque, che non è l’unica ma che ci è più prossima di altre, abbiamo meno gradi di separazione con i civili coinvolti, e le sue evoluzioni possono modificare gli equilibri del nostro quotidiano. Le immagini sono sia testimonianza che detonatore emotivo.

Se da un lato l’intenzione è quella di mettere di fronte a una realtà oggettiva e provocare l’effetto di empatizzare con le vittime, dall’altro abbiamo l’impreparazione a ricevere la realtà della morte fisica, e violenta.

Siamo talmente impreparati che alcuni di noi pensano non ci sia niente di vero, che i profughi siano attrici e attori, che i cadaveri siano manichini. Possiamo davvero stupirci?

La negazione dei morti di Bucha, di tutti i morti della guerra in Ucraina non è altro che una versione potenziata della negazione dei morti di Bergamo e della pandemia. Ce lo ricordiamo, di chi diceva che i camion militari erano vuoti? Che erano pieni di bare senza morti? O che i morti erano salme già pre-esistenti e “riutilizzate” per una messinscena?

Negare tragedie di questa portata, anche di fronte all’evidenza, più ancora che di immaturità è cristallina espressione di paura.

Paura del fatto che la morte ci riguardi e possa arrivare in qualsiasi momento e nel più assurdo dei modi. Rifiuto della mancanza di controllo, ma anche della violenza che si abbatte sul nostro vicino (e dunque può abbattersi su di noi) senza ragione.

La scomparsa della morte

D’altro canto, anche accogliendo l’immagine e la storia che questa si porta dietro, è importante prendersi lo spazio del silenzio e della riflessione perché non sappiamo – e in presa diretta non possiamo sapere - che cosa comporterà l’esposizione massiccia a immagini di morti violente in una società che la morte ha smesso di frequentarla, conoscerla e accettarla almeno a partire dal Boom economico.

È infine sano, oltre che rispettoso, ricordare a noi stessi che vedere un’immagine non è possederla. Chiunque dia valore alle testimonianze che stiamo ricevendo ha avuto o avrà un punto di rottura, di malessere profondo, di picco emotivo.

Tutti però dovremmo almeno provare a mantenere salda l’idea che vedere delle rappresentazioni non è vivere la realtà di chi si trova lì e sente tutto, compresa la consistenza dell’aria.

Le immagini fanno venire voglia di esporsi alzando i toni, di piangere e di stare male, ma considerare la differenza tra vedere e esserci è l’esatto contrario di sminuire la gravità dei fatti testimoniati. È la presa in carico della responsabilità che ricevere quelle testimonianze comporta.

Scrive ancora Sontag: «Possiamo sentirci obbligati a guardare fotografie che documentano grandi crimini e crudeltà. Ma dovremmo sentirci altrettanto obbligati a riflettere su quel che significa guardare, sulla capacità di assimilare realmente ciò che esse mostrano».

Mettiamoci in ascolto e osservazione, facciamo da amplificatori della voce altrui, non della nostra.

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