Giuseppe Conte dovrà se soumettre oppure se démettre. Il Movimento 5 stelle è un partito. E come tale soggiace alla “legge ferrea dell’oligarchia”. La fase movimentista embrionale è durata lo spazio dell’infantilismo ribellista culminata negli strepiti contro il Capo dello stato nel post voto 2018.

La genetica del partito è palesemente intrisa di paternalismo mascolino, di preponderante cultura padronale e personalista. Il partito M5s è una formazione politica di tipo carismatico-cesarista e privatistico, dove prevale il tratto centralizzatore e non democratico tipico dei regimi autoritari, come dimostra la risposta di Grillo alle istanze di Conte.

La diade Casaleggio-Grillo ha repentinamente annichilito le residuale istanze di democrazia diretta e di partecipazione diffusa. Il sol dell’avvenire dell’uguaglianza, sintetizzata nel motto da combattimento e di motivazione delle truppe, è stato avviluppato dalla gestione aziendale fattane dal connubio tra interessi privati di una società di comunicazione e le redini saldamente in mano a un solo individuo. Il combinato disposto tra gli scopi commerciali e quelli personali ha segnato le sorti del qualunquismo italiano degli ultimi tre lustri. La gestione tecnocratica, la disinvolta incompetenza propalata quale virtù e la personalizzazione ossessiva hanno contribuito a minare le già gracili gambe della politica italiana.

Il qualunquismo

La perenne nota anti-intellettuale, la sfiducia, la cultura del sospetto e la criminalizzazione hanno reso evidente che i sogni utopisti di alcuni fondatori dei “movimenti” alla base del futuro M5s erano stati tacitati nella culla di una forza politica reazionaria. Spesso definita populista, ma decisamente qualunquista che ha allevato e coltivato le pulsioni anti democratiche e anti istituzionali tipiche del ribellismo provinciale e pre-politico.

Nel M5s convivono, fagocitate dal magnate della comunicazione e dalle intemerate istrioniche del padrone, atteggiamenti sinceramente “rivoluzionari”, sempre più isolati in una base sincera ma disillusa, e tratti movimentisti da camicie nere, da squadracce del Ventennio incluso ricorso al manganello pre-giudiziario e all’asprezza rude, velleitaria e gratuita dell’invettiva a mezzo social network.

Permangono illusioni e ignoranza, mutuamente alimentate, che non si tratti di un partito e che se mai lo fosse, semmai lo divenisse, sarebbe comunque altro e altèro, distante e distinto rispetto alla “casta”, ai manigoldi che siedono ogni dove come propaganda “grillina” disegnata nella manichea visione noi/buoni vs loro/corrotti. Il non partito, il non statuto, il popolo al governo, la rivoluzione incruenta, l’onniscienza individuale e lo spirito di gruppo… Intuizioni commerciali, suggestioni, infatuazioni per modelli privi di contenuto, slogan vuoti, frasi ad effetto, schermaglie accattivanti per celare il non-pensiero, condito da efficaci proposte ad ampio spettro di ricevibilità sociale. Proposte per palati non troppo raffinati.

La sinistra infatuata

L’infatuazione, che ha però seminato proseliti, ha colpito molti, anche tra (ex) intellettuali, artisti, pensatori della sinistra malandata di un paese senza memoria, è stato un tratto trascinante del voto per il M5s. Un voto nec spe nec metu, senza speranza e senza timore. Alla giornata, un arrembaggio senza pianificare gli insediamenti, una conquista senza ricordare gli approvvigionamenti e la logistica, oltre che la logica, per amministrare il nuovo territorio.

Giunti sulla “Luna” gli esponenti del M5s hanno palesato l’inettitudine degli assalitori della Bastiglia che senza l’élite tanto detestata e vituperata sarebbero stati rinchiusi nelle patrie galere e sedati nel sangue.

Il M5s ha anche fatto ricorso a un sedicente autoproclamato avvocato del popolo, quasi non ci fosse la Costituzione a tutelarne i diritti e i doveri, che ha immaginato di domare il “Palazzo” con eloquio furbesco e collodiano senza rischiare l’osso del collo come il più celebre Maximilien.

Il presidente Conte non è un prestanome. Ma lo è stato, sin dal discorso parlamentare di Montecitorio recitato con ausilio di gobbo avendo smarrito lo spartito. Ha governato con spigliatezza con Matteo Salvini, con il Pd, ha mitigato la carica anti-istituzionale e antieuropea che ancora cova nella base, e ha negoziato un’uscita di scena decente con Draghi. Il futuro potrebbe serbare soprese se facesse cambiare ancora la parte di M5s che lo segue.

Per capire e spiegare la diatriba tra l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e Beppe Grillo è più meritevole studiare la storia patria, la politica italiana degli ultimi trent’anni piuttosto che inseguire le agenzie di stampa degli ultimi quattordici secondi.

Dove andranno, dunque, il M5s e Conte? Dove sono, da sempre. Nel mare magnum del qualunquismo, ché il populismo è un fenomeno ben più complicato.

Grillo come Berlusconi

In questa prospettiva, le intemerate di Grillo non sono ascrivibili a tratti caratteriali, a cattiveria, irascibilità, arroganza e permali. Può darsi ci sia una componente personale, ma per capire le dinamiche del M5s meglio ricorrere al concetto di partito “carismatico” anziché a categorie pre-politiche.

Grillo è padrone del partito, e in questo è molto simile a Berlusconi, più di quanto egli stesso assuma. Il partito non è scalabile e la leadership di Grillo non è in discussione, non lo è ontologicamente. Co nte, per rimanere in analogia, è simile all’ex leader di An Gianfranco Fini, senza partito, ma con molto consenso popolare. L’implosione non è scontata.

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