A Nablus, in Cisgiordania, nella città vecchia, un gruppo di donne palestinesi ha riattato una casa antica: hanno cucina e scuola di cucina. Mentre degusto delizie di cui istantaneamente dimentico i nomi, il canto del muezzin – che qui suona melodioso più che perentorio, e certamente venato di malinconia – mi sorprende nell’atto di rigirarmi nella testa quell’antichissima, mai realizzata profezia: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre». Già, questo monte: perché è proprio qui, accanto a Nablus. Dicono che c’è ancora, il pozzo della Samaritana.

Tremenda ironia della storia: lo stesso nome di Samaria suona oggi feroce qui, dove viene usato come un segnaposto etno-biblico per giustificare un regime di occupazione ingiusta e illegale, irremovibile nel difendere la continua avanzata dei coloni israeliani dentro ciò che resta dei territori palestinesi.

Proprio quel nome! Che risuona nella memoria di tante infanzie europee, evocando il buon samaritano, certo, ma anche quella misteriosa samaritana al pozzo, alla quale Gesù secondo il Vangelo di Giovanni disse le parole più illuminate, anzi più illuministiche, che mai profeta antico abbia pronunciato: «Viene l’ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità».

Più di due millenni son passati, e quell’ora sembra sempre più lontana: anzi, nell’ultimo secolo non ha fatto che crescere quel tremendo peccato contro lo spirito che consiste a mettere i nomi di Dio sulle bandiere, riducendoli a parole assassine.

 Eppure questo canto genera un’ora fuori dal tempo e dallo spazio, un presente tonale che sembra abbracciare i millenni e carezzare il volto sfigurato del dolore, ridargli forma umana…e mentre penso questo, un’altra voce e un altro ritmo mi sorprendono, salendo dal patio sottostante, dove alcune donne calabresi improvvisano una tammurriata dell’Aspromonte, e la malinconia cede il passo al riso dei sonagli, ai passi di una danza scanzonata e gentile – senza mutare in nulla il sapore del canto. O dell’incanto. Così mediterraneo, così nostro.

Anche questo incanto, mi sorprendo a pensare, ben la conosce, quell’ora di spirito e verità che libera dalle contese del tempo e dello spazio.

Queste due voci intrecciate ne ripetono la luce, anzi i Lumi, il respiro dell’universale nelle particolari lingue e melodie che qui salgono al cielo, oggi azzurro.

E mi torna in mente un’acuta considerazione sulle luci di Hanukkà, che ricordo di aver letto qualche giorno fa (Domani 24 dicembre).

David Assael, l’autore dell’articolo, indirizzava una critica al tentativo del nostro presidente del Consiglio, vulgo Giorgia Meloni, di omologare Hanukkà a una celebrazione identitaria, che appunto “resiste alle omologazioni”, come altri fanno con i loro propri simboli identitari.

È vero, sostiene Assael, che con Hanukkà si celebra la resistenza ebraica al tentativo di assimilazione ellenica.

Ma ciò che «difendevano i sacerdoti asmonei asserragliati nel Tempio di Gerusalemme era il culto del Dio unico davanti al quale siamo tutti uguali, al di là di genere (Adamo non era un uomo ma un androgino), origine etnica o religiosa (il Santuario di Gerusalemme, una volta a settimana, era aperto al culto delle altre fedi). Non, quindi, la difesa di una tradizione, ma esattamente l’opposto: la difesa dei diritti di ogni individuo rispetto all’oppressione delle tradizioni». Magari.

Magari anche i candelabri di Hanukkà venissero ad aumentare la luce di quell’ora che viene “in spirito e verità”, fuori dallo spazio e dal tempo dell’oppressione.

Io spero che Assael abbia ragione. Che anche quello di Hanukkà sia un felice botto di illuminismo millenario, una sorta di fuoco d’artificio della divina ragione per festeggiare l’eone nuovo dell’umanità.

Però, Davide, perché non vieni qui a spiegarlo a questi pii coloni, e ai loro rappresentanti ultraortodossi e xenofobi al governo appena installato alla Knesset?

Infatti il nuovo governo israeliano, invece che vita nuova, promette “impunità preventiva” per i soldati e la polizia israeliana qualunque cosa facciano nei territori palestinesi occupati, limitazione dei poteri della corte suprema, raddoppio dei fondi per le organizzazioni ortodosse. Sarà così che si difendono i diritti umani dall’oppressione delle tradizioni? O i palestinesi sono meno umani degli altri?

© Riproduzione riservata