Caro direttore, ho sempre qualche remora a parlare di Aldo Moro. Egli è parte della storia politica del paese, innanzitutto. Ma anche, nel mio piccolo, di alcune vicissitudini che ho attraversato quasi da ragazzo, agli albori della militanza politica. E questo fa di lui, ai miei occhi di allora e di adesso, una figura che si intreccia con un vissuto personale e familiare che richiede ancora un’elaborazione che non so se mai riuscirò a completare.

Vedo poi tanti che oggi si pavoneggiano nel suo nome, lo interpretano a modo loro, ne fanno una bandiera nella quale comodamente avvolgersi, e questo ancora di più mi spingerebbe a una certa ritrosia. O almeno, a quella sorta di pudore a cui non sempre la politica paga il tributo che gli sarebbe dovuto.

Dunque, ne vorrei parlare – se mi riesce – quasi in punta di voce, senza farmi scudo di troppe certezze e tenendo sempre presente che la vita politica di Moro fu un’incompiuta, perché venne drammaticamente sospesa il giorno del suo rapimento inchiodandolo per così dire all’ultimo fotogramma di una vicenda che avrebbe potuto avere mille evoluzioni, una diversa dall’altra e quasi tutte diverse da quella che va per la maggiore.

Il Pci

Moro è diventato anche in virtù del suo destino tragico un patrimonio comune della politica italiana. Si dirà che la sua storia non consente appropriazioni di sorta: né quelle plausibili, né tantomeno quelle indebite. Ma c’è in tutta la sua vicenda un tratto di controversia che lo accompagna fin dai suoi esordi e che non merita di essere sepolto sotto la coltre di una eccessiva retorica. Dunque, forse alcune delle leggende che circolano meritano di essere almeno rivisitate.

A tutt’oggi Moro viene raccontato da molti come l’uomo che era sul punto di aprire le porte al Partito comunista. È curioso come questa rappresentazione venga evocata, con intenti opposti, da sinistra e da destra. Da sinistra per compiacersi di lui. Da destra per demonizzarlo. Si descrive Moro come una sorta di Enrico Berlinguer democristiano, speculare al suo dirimpettaio, tessitore anche lui del compromesso storico – sia pure battezzato con parole diverse.

Sull’altare di questa rappresentazione si sacrificano anni e anni di polemiche politiche. Si cancellano pudicamente tutte le diffidenze con cui larga parte del mondo comunista accolse all’epoca la politica di Moro, interpretata alla stregua di una trappola in cui la sinistra avrebbe dovuto evitare di farsi imprigionare. Si oscurano una quantità di schermaglie polemiche, a cominciare dall’accoglienza glaciale che il Pci riservò pochi mesi prima all’accorata difesa parlamentare che Moro fece di Luigi Gui. Si rimuove la circostanza che poche ore prima del rapimento, e poche ore prima del voto parlamentare sul governo Andreotti, Moro venne informato che l’indomani il Pci assai probabilmente non avrebbe votato la fiducia. Si trascura il fatto che la composizione di quel governo, così rispettosa di tutte le correnti democristiane, e così fortemente voluta da Moro, era stata giudicata a Botteghe Oscure (e magari anche in qualche stanza di piazza del Gesù) alla stregua di una intollerabile provocazione.

Moro insomma, a dirla tutta, era anticomunista. Lo era senza ossessione, tutt’altro. Lo era con il garbo che gli era proprio. Lo era con il rispetto dovuto a un grande partito avversario. Lo era con la consapevolezza che all’ombra del Pci c’era un pezzo di Italia che meritava attenta considerazione. Lo era in modi sempre assai diversi, profondamente diversi, da quelli gretti e beceri di una certa destra che nell’ossessione anticomunista trovava riparo al sentimento della propria parzialità.

La destra

Certo, quella destra fu sempre il demone di Moro. Ne era lontano anni luce, ne avvertiva la pericolosità, ne sondava gli umori con un misto di prudenza e di contrasto. Ma appunto perché ne conosceva tanti risvolti era sempre attento a evitare di offrire a quella destra gli argomenti di cui essa andava in cerca. Primo tra tutti, la comoda rappresentazione di una Dc sul punto di arrendersi, pronta a combinazioni conoscitive che avrebbero aperto ancora nuovi varchi a chi vi si fosse opposto in nome di paure e apprensioni che circolavano in tanta parte dell’Italia tout court – e dell’Italia democristiana in particolare.

Andrebbe insomma rovesciata una certa vulgata. Quella che accomuna ancora oggi chi fu comunista e chi di destra, e che da ambo i lati tende a raccontare Moro come l’alfiere del consociativismo, l’architetto di un equilibrio politico che avrebbe dovuto restare immobile e grandioso, a garanzia di un passaggio epocale destinato finalmente ad accomunare i partiti della Resistenza nei secoli dei secoli (o quasi).

Mentre invece tutto lascia credere che all’indomani di quel breve passaggio lui avesse piuttosto immaginato una nuova sfida tra democristiani e comunisti, seppur depurata dal veleno dei pregiudizi e delle ostilità di un tempo.

Che il disegno consociativo che gli viene così spesso attribuito fosse un merito, o che invece fosse una colpa, conta assai poco. Il punto vero è che non è affatto detto che fosse quello il disegno di Moro. E, dato che egli purtroppo non ebbe mai modo di condurlo a destinazione, credo sia doveroso lasciare a lui, e alla sua memoria, quei puntini di sospensione che l’agguato della Brigate rosse lasciarono a loro volta in triste eredità alla politica degli anni che seguirono.

E del resto, se poi quella politica si interruppe, da una parte e dall’altra, è segno che essa non avrebbe potuto svolgersi senza chiarire fino in fondo la sua natura e i suoi propositi a lungo andare. Cosa di cui la cautela e la misura tipiche di Moro offrono anche a posteriori una conferma che non andrebbe trascurata.

La linea della “fermezza”

C’è poi un altro equivoco che ha accompagnato in questi giorni il ricordo di Moro. Ed è l’idea ricorrente che la linea della “fermezza” fosse giusta, doverosa, obbligata. Ma che la sua applicazione da parte dei poteri dello stato fosse stata tale da far precipitare le cose nascondendo a mala pena l’ansia con cui una parte della politica e delle sue istituzioni sembravano volersi liberare dell’incomodo del prigioniero.

Mi permetto di obiettare. La linea della fermezza non poteva e non voleva concedere più di tanto alla possibilità della liberazione. Non perché non si avesse a cuore la vita dell’ostaggio. Ma perché si riteneva, da parte di molti (non tutti) che un qualunque cedimento alle Brigate rosse avrebbe comportato il collasso delle strutture dello stato. Su questo punto credo che il sentimento di Giulio Andreotti, di Benigno Zaccagnini e di Berlinguer fosse tragicamente lo stesso, identico per tutti e tre. Per non dire di Francesco Cossiga, che ne ebbe l’onere più gravoso sulle spalle.

Non ci fu, insomma, una fermezza “buona”, frutto della sofferta virtù civile di tanta parte della dirigenza politica del paese, contro una fermezza “cattiva”, figlia di apparati interni e internazionali che non vedevano l’ora di liberarsi di Moro e della sua politica.

Naturalmente, in quel fronte ci furono sfumature. E altrettante nell’opposto fronte della “trattativa”. Che forse a sua volta meriterebbe una considerazione più rispettosa, meno affrettata e liquidatoria, tenuto conto del legame che correva tra le sue ragioni e un bel pezzo della storia del paese – di prima e di dopo.

Semmai andrebbe considerato con maggior cura (e minor conformismo) il fatto che quella decisione, tragica e cruciale, venne presa ai margini del circuito istituzionale della democrazia. Non ci fu un voto del parlamento. Non ci fu una delibera del consiglio dei ministri. Ci furono scambi di parole, tantissimi. Incontri in grande quantità che grondavano tutte le angosce e le incertezze di quel passaggio. Ravvedimenti, esplorazioni, tremori, tormenti di ogni sorta. Ma sempre ai margini di quelle procedure che dovrebbero regolare la vita dello stato. E tanto più nel bel mezzo di una crisi così drammatica.

Un’altra idea dello stato

È proprio su questo che si dovrebbe indagare. Non per svolgere processi al passato, ma per comprendere che quella sospensione delle procedure, seppure fosse giustificata dall’emergenza di quel momento, è rimasta poi come un’ombra che ancora oggi sembra pendere su di noi – che pure dalla cupezza degli anni di piombo per nostra fortuna siamo potuti uscire.

Moro aveva un’altra idea dello stato. Umano e rigoroso, ma mai rigoroso a prezzo dell’umanità. Di quello stato, di cui era un altissimo rappresentante, conosceva i meandri oscuri. Ne considerava i rischi, le insidie. Ma negli anni si era trovato a fronteggiare le sue deviazioni non con l’impeto facile e sdegnato della denuncia ma semmai con la pazienza accorta con cui era solito sciogliere i nodi delle controversie. Badando più all’esito che alle intenzioni. Weberianamente più all’etica delle conseguenze che a quella delle responsabilità.

Ora noi appunto ci affacciamo sulle conseguenze di tutto questo. E possiamo tirare un sospiro di sollievo nel sapere che quegli anni sono alle nostre spalle e che anche le pendenze della giustizia, poco alla volta, con fatica e con dolore, si avviano a essere risolte. Ma una classe dirigente degna del nome dovrebbe continuare a riflettere sui mille chiaroscuri di quella stagione sapendo che non tutti i conti sono tornati e che la nostra via d’uscita è passata anche attraverso equivoci, ambiguità e ingiustizie che non si possono annegare nel fiume in piena delle celebrazioni commemorative.

In altre parole, l’ombra della vicenda Moro ci avvolge ancora. Cosa che imporrebbe la virtù del silenzio, o almeno della sobrietà. E qui mi fermo, perché ho parlato anche troppo.

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