Il 16 marzo 1978 l’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana, viene rapito da un commando delle Brigate rosse mentre sta andando in parlamento per votare la fiducia al nuovo governo.

Durante l’azione dei brigatisti, vengono uccisi Oreste Leonardi e Domenico Ricci, i due carabinieri a bordo dell'auto di Moro, e Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, i tre poliziotti che viaggiano sull'auto di scorta.

Il sequestro durerà 55 giorni e si concluderà, come è noto, con l’assassinio del politico democristiano, il cui cadavere sarà lasciato nel portabagagli di una Renault 4 rossa, in via Caetani, strada del centro di Roma, non lontana dalla sede della Dc.

In quei 55 giorni del rapimento molte cose accadranno nel paese e in molti, fra storici e romanzieri, negli anni a venire, le racconteranno, al punto da creare un vero e proprio canone narrativo sul caso Moro, per cui l’evento storico è diventato un prisma attraverso cui guardare tutta la vicenda politica italiana, sorta di pietra d’inciampo alla quale in pochi, trattando i decenni che seguono la seconda guerra mondiale, sono riusciti a sottrarsi.

La seduta

Una di queste storie, la più incredibile, è quella della seduta spiritica che il 2 aprile 1978 alcuni professori universitari, tra i quali Romano Prodi, organizzano nella casa di campagna di uno di loro, vicino Bologna.

Una seduta spiritica. Per chiedere agli spiriti di don Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare e Giorgio La Pira, costituente e sindaco di Firenze, morto l’anno precedente, che fine avrebbe fatto Aldo Moro.

Si rimane abbastanza sconcertati ancora oggi, a quasi cinquant’anni di distanza, a scrivere, nero su bianco, “seduta spiritica” in un contesto che non riporti la trama di un romanzo del decadentismo italiano. Reminiscenze crepuscolari, una certa letteratura tardo ottocentesca, fantasmi, che nell’anno in cui esce La febbre del sabato sera si fa fatica a collocare. Così come si fa fatica a pensare che qualcuno possa averla pronunciata questa espressione una prima volta, nel 1978, riferendosi al rapimento Moro e poi ancora negli anni a venire, anche di fronte alla commissione parlamentare incaricata di indagare sull’affaire per antonomasia.

A ricostruire oggi questa surreale vicenda è Antonio Iovane, giornalista, scrittore, in un libro che si intitola, appunto, La seduta spiritica (minimum fax).

Iovane, fin dalle prime righe, rende omaggio a Leonardo Sciascia che rappresenta, in questa storia, ma potremmo dire ormai alla luce del tempo trascorso, nella storia d’Italia, l’emblema stesso della ragione, una ragione laica che sempre, in ogni circostanza, si contrappone all’assurdo nel quale si vorrebbero relegare nel discorso pubblico alcuni fatti, condannandoli all’inspiegabilità. Lo Sciascia che, a pochi mesi dal 16 marzo del 1978, scrive per Sellerio il suo ragionamento su Aldo Moro, L’affaire Moro, appunto, nel quale l’onorevole democristiano è visto come persona e come simbolo, allo stesso tempo. Sul simbolo secondo Sciascia, più che sull’uomo, si è costruita l’icona il cui mandante è il Sim, lo Stato imperialista delle multinazionali, le cui responsabilità ricadono su Moro al punto da condannarlo a morte.

Scrive Sciascia: «Moro e la sua vicenda sembrano generati da una certa letteratura».

Ecco, appunto, da una certa letteratura, una letteratura che da un lato si nutre di un immaginario che ruota intorno a una Spectre mondiale, il Sim appunto; dall’altro si nutre di atmosfere fogazzariane, assurda, crepuscolare. Per entrambe è richiesta la sospensione dell'incredulità, espressione coniata nel 1817 dallo scrittore inglese Samuel Taylor Coleridge per la quale il lettore, il pubblico in generale, sacrifica ogni principio di logica e di realismo in cambio di una storia godibile e coerente al suo interno.

Bene: nessuna storia è più godibile e più coerente al suo interno di quella che ricostruisce Iovane in questo romanzo storico, alla Manzoni, misto di realtà e finzione, alla Cercas, attento a colmare i vuoti della verità con l’aiuto indispensabile dell’immaginazione.

Il piattino

I fatti sono questi: il 2 aprile 1978, in località Zappolino, nell’appennino bolognese, un gruppo di amici, stimati professori, si incontra in quello che parrebbe essere un normale fine settimana con mogli e figli.

Il padrone di casa, Alberto Clò, propone per gioco la seduta. «Se il piattino si muove, ci si va dietro, il dito resta sempre nelle vicinanze, nel momento in cui il piattino si ferma, si prende nota della lettera e se il piattino ricomincia ad andare si va dietro fino a quando non si ferma e così via».

Così riferisce Clò stesso alla Commissione parlamentare sul caso Moro che si riunisce nel 1981.

Di questa Commissione è chiamato a fare parte Sciascia, ormai parlamentare, eletto nelle fila del Partito radicale. Sciascia interrompe Clò e chiede: «Mi pare di capire che è convinto che il piattino si muove e si ferma da sè?».

Sicuramente, risponde Clò, nessuno dei presenti l’ha mosso.

Il piattino, è noto, compone un nome, Gradoli, località del viterbese, ma anche nome di una strada nei pressi della via Cassia, strada che per l’appunto porta a Viterbo.

A Gradoli, paese, non c’è niente, a via Gradoli invece c’è un covo delle Brigate rosse.

Ma nessuno si prende la briga di usare a via Gradoli la stessa solerzia di indagini che viene usata a Gradoli (paese) dalle forze dell’ordine, già perché la storia della seduta spiritica, del suo esito, non rimane confinata nel ricordo di un ozioso pomeriggio di primavera, no. Viene riferita a Roma da chi decide di prenderla sul serio ma solo a metà, cioè paesino sì, via Gradoli no. Eppure via Gradoli era già uscita fuori pochi giorni dopo il rapimento in una soffiata alla segreteria del Ministero dell’Interno, ma nelle perquisizioni nessuno aveva prestato attenzione all’inquilino dell’interno 11, un certo Mario Borghi.

Una storia raccontata decine di volte, se non centinaia, da storici e giornalisti. Ma quello che sottolinea Iovane va oltre, manda all’aria il patto che vorrebbe sospesa l’incredulità e si mostra, come Sciascia, incredulo.

Scrive Iovane: «Seri professori che mostravano di credere a quella che Francesco Cossiga avrebbe chiamato una “onesta baggianata”.(…) Dal mio punto di vista, una seduta spiritica doveva restare confinata nella dimensione della superstizione. Eppure era capitato, nella storia repubblicana, che magistrati e membri di commissione d’inchiesta si ritrovassero disarmati di fronte ad alcuni professori che giuravano di aver ottenuto alcune informazioni vitali per salvare Aldo Moro dallo spirito di due tra i massimi ispiratori della storia della Dc».

Come ha scritto Miguel Gotor: «La storia del piattino ha suscitato mordaci sarcasmi e calunniose strumentalizzazioni aumentate in maniera direttamente proporzionale all’ascesa politica di Prodi. Tuttavia, quell’artificio è più raffinato di quanto sembra, tanto da essere utilizzato dalle principali polizie del mondo (in particolare dagli psico-detective angloamericani) per coprire i propri informatori quando sono a rischio della loro stessa vita. In effetti, una seduta spiritica occulta qualsiasi responsabilità individuale dietro un doppio inscalfibile schermo: il soggetto collettivo previsto dalla sua organizzazione e, nel caso di un interrogatorio, un’insondabile entità soprannaturale».

Non si sa davvero cosa pensare.

Ha scritto Rosario Priore, e Iovane lo riporta, «Tutto l’episodio Gradoli è stato una disfatta enorme e fin dall’inizio, perché sicuramente si sapeva di via Gradoli. (…) Io torno spesso su via Gradoli proprio perché se noi vi fossimo giunti fin dall’inizio, forse la storia del sequestro e dell’organizzazione delle Brigate rosse sarebbe stata del tutto diversa; anche la storia d’Italia, in un certo senso».

E Francesco Cossiga: «Ho il timore che quando verrà il momento, dopo aver ricevuto i sacramenti, l’ultimo che vedrò non sarà il sacerdote, ma un rappresentante della Commissione stragi che mi si avvicinerà per chiedermi: “ma a proposito, via Gradoli?”».

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