La procura generale di Milano ha rinunciato a fare appello contro la sentenza di assoluzione di primo grado nel processo più significativo del decennio, quello per l’acquisizione di Eni e Shell del giacimento nigeriano Opl245, una vicenda che si trascina dal 1998 e che coinvolge l’Eni almeno dal 2009.

Con la rinuncia della procura generale il processo si chiude, «la rinuncia determina che le assoluzioni già pronunciate nel marzo 2021 di Eni e dei suoi manager siano diventate definitive, passando in giudicato. Dopo oltre 8 anni tra indagini e procedimenti giudiziari, cause di altissimi costi e di gravi e ingiuste conseguenze reputazionali per la società e il suo management, la Giustizia ha completato il suo corso confermando in via definitiva la piena assoluzione perché il fatto non sussiste», scrive Eni in un comunicato.  

I danni 

In questi otto anni di processi tutti quelli che sono venuti in contatto con la vicenda hanno pagato prezzi altissimi.

 La procura di Milano è uscita devastata da un processo che, ora si può dire in modo definitivo, ha perso: magistrati indagati, carriere gloriose segnate da questa ultima sconfitta (il pm Fabio De Pasquale, l'ex procuratore capo di Milano Francesco Greco), onde sismiche che, partite da Milano, hanno travolto il sistema giudiziario italiano e la politica.

I giornalisti che hanno seguito la vicenda sono stati oggetto di pressioni, avvertimenti, manipolazioni, sono stati usati per depistaggi e regolamenti di conti, a volte a loro insaputa.

Quelli che raccontavano i fatti da una prospettiva sgradita all’azienda, controllata dal ministero dell’Economia e con i vertici scelti dal governo, sono spesso stati oggetto di pesantissime azioni di risarcimento danni che hanno sollevato la censura delle organizzazioni internazionali per la libertà di stampa.

I rari consiglieri di amministrazione – vanno ricordati Luigi Zingales e Karina Litvack –  che hanno chiesto trasparenza sul caso Nigeria sono stati oggetto di macchinazioni, inchieste giudiziarie fasulle e tenuti lontani dalle informazioni.

Perfino tanti dirigenti dell’Eni che, in un modo o nell’altro, sono entrati in contatto con questa vicenda hanno visto la loro carriera complicata, o compromessa, tra indagini, sanzioni e notizie sui giornali.

Dalle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, dal quale l’azienda prende sempre le distanze pur avendo compensato i suoi servigi con milioni di euro, alle spaccature nel Consiglio superiore della magistratura, su fino al Quirinale di Sergio Mattarella.

Mani Pulite a rovescio

Su una scala più ridotta, la vicenda Nigeria-Opl 245 è stata una replica di Mani Pulite, con la differenza che la procura di Milano ha perso e gli indagati hanno vinto.

Anzi, sul piano giudiziario hanno stravinto: passa la linea imposta in primo grado dal giudice Marco Tremolada, il fatto “non sussiste”.

Dove il “fatto” è la corruzione internazionale contestata dalla procura: le operazioni dell’Eni per acquisire il giacimento non possono essere classificate come uno scambio corruttivo con i politici nigeriani, questa è ora la verità giudiziaria.

Il processo del decennio si è consumato sulla qualificazione giuridica di fatti non contestati da nessuna delle parti: da ministro del petrolio della Nigeria Dan Etete si auto assegna un giacimento colossale (se non ci fossero rischi di querela si userebbero altri verbi), poi la sua società Malabu prova a venderlo a due società occidentali, Eni e Shell.

Dopo un po’ di tentativi falliti, la trattativa si sblocca quando sono esponenti del governo nigeriano a fare da mediatori. Il miliardo e 300 milioni per il giacimento non va allo stato nigeriano, i soldi finiscono prima su un conto vincolato e poi arrivano a Etete e altri intermediari della politica nigeriana.

Non era un caso facile: l’Eni ha sempre sostenuto di aver fatto l’unica cosa lecita e legittima, trattare con una controparte riconosciuta come il governo nigeriano. L’accusa sosteneva la “teoria del preservativo” (celebre metafora dell’Economist), cioè che il governo nigeriano fosse una sottile barriera protettiva che permetteva di consumare il rapporto corruttivo. Il tribunale di Milano, e ora la procura generale, hanno deciso cha ha ragione l’Eni.

Ora non resta che sperare che si stia chiudendo un’epoca di veleni ed errori. Gli errori nella politica energetica che, via Eni, ha legato l’Italia alla Russia di Vladimir Putin e i veleni del processo milanese. Speriamo che la vicenda Opl245 abbia spinto Eni a migliorare le sue regole interne di corporate governance per prevenire ogni ambiguità e abbia depurato l’azienda dai personaggi assai dubbi che hanno animato questo processo (Vincenzo Armanna, Piero Amara e tanti altri).

E che l’anno prossimo, con la scelta del nuovo amministratore delegato dopo il termine del mandato di Claudio Descalzi, ci sia davvero un nuovo inizio per l’azienda più strategica del paese.

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