Chiara Ferragni di colpo sembra aver scoperchiato il vaso di Pandora: a Milano un problema sicurezza c’è eccome, perlomeno nella percezione condivisa, solo che finora non se n’è parlato.

Un problema in parte nuovo, recente, intensificatosi nel corso di quel tempo grigio e sospeso dei lockdown, che forse ha dirottato risorse e generato meno controlli, forse accumulato più disagio e aggressività, anche nei giovanissimi (il prefetto Saccone di recente ha parlato di “frange di giovani fuori controllo”).

I dati, se ci si mette a guardarli, d’altronde confermano un tema soprattutto legato alle strade, allo spazio pubblico: nel 2021 i reati totali a Milano sono diminuiti, ma sono aumentati rapine (+14 per cento), furti con strappo (+21,6 per cento) e violenze sessuali (+6,7 per cento).

Sulla nostra pelle

Con amici e conoscenti ce lo diciamo di continuo, man mano che accadono, continuano ad accadere – a noi o ad altri – episodi spiacevoli o proprio gravi. Aggressioni diurne e serali, in zone centrali o periferiche, affollate o meno, poco cambia.

Ne ho scritto di recente su queste pagine, raccontando vicende che hanno coinvolto, in queste settimane, a persone a me vicine.

Anche in via Lecco, la zona LGBT di Porta Venezia, il clima da qualche tempo non è più lo stesso: chi la frequenta sa che bisogna stare in allerta, quando ci si siede nei bar ormai punto di ritrovo di tutta la comunità sono gli stessi gestori che avvertono i clienti di stare attenti a borse e telefoni, evitando di lasciarle in vista (tragicamente noto è stato il caso di Giacomo Sartori, suicidatosi dopo il furto dello zaino con pc aziendale e cellulare).

Nei mesi scorsi, durante le prime serate di riapertura, alcuni degli storici proprietari della rainbow street mi parlavano proprio di un incremento della microcriminalità, frutto anche di un mutamento dei flussi interni alla città. 

A causa della chiusura di corso Como, tipica zona di uscite serale e locali, durante primo e secondo lockdown furti e rapine sono aumentati di colpo nella zona queer.

Una zona che, va detto, anni fa godeva di una fama decisamente poco rassicurante, ma che nell’ultimo decennio era progressivamente migliorata, fino a diventare quasi una specie di rifugio intersezionale per varie minoranze (Porta Venezia è storicamente zona di immigrazione, soprattutto etiope ed eritrea). Ora, piaccia o no ammetterlo, non è più così.

Esperienza diretta

Inevitabile poi pensare al folto gruppo di borseggiatrici che da tempo opera sulla linea verde della metro, soprattutto nella tratta Centrale-Garibaldi: fenomeno talmente intenso e quotidiano che è diventato oggetto di narrazione social e meme (soprattutto attraverso l’account Instagram Milano Bella Da Dio, che da mesi raccoglie materiale audio e video a riguardo).

Su cause ed entità specifica del fenomeno è chiaro che la parola va lasciata a chi di dovere, ma le critiche che si leggono in queste ore a Ferragni, da parte di chi in pratica le dà della milionaria farneticante, sono automatiche, pretestuose, senza senso.

Indipendentemente dal merito, la si vede sempre e comunque come la privilegiata che dalla sua torre d’avorio dispensa pareri e, ora, grida d’allarme a caso, non pensando che – oltre a essere il personaggio pubblico che è – Chiara Ferragni resta una 35enne che vive in questa città ed è più in contatto di altri, direttamente o attraverso terzi, come lei stessa racconta, con qualcosa che sta sotto gli occhi di molti (in questo senso risulta più fuori dalla realtà il negazionismo di Roberto Vecchioni).

L’appello a Sala da parte di Ferragni mi sembra raccogliere quindi un sentimento comune ma non ancora ammesso da chi di dovere, anche perché si sa che riconoscere, quando si amministra, comporta il dover intervenire e magari risolvere. Per quel che può valere, dopo la pubblicazione della storia di Ferragni, nel gruppo Whatsapp che ho con alcuni amici più o meno coetanei – una guardia del Castello sforzesco, un bibliotecario e un ragazzo che lavora in una casa d’aste –, i commenti sono scattati subito: “Angosciata come noi”, “anche lei nella nostra lotta”, “ora finalmente faranno qualcosa”, “speriamo”.

Ovviamente nessuno (almeno delle persone che conosco) auspica una città militarizzata, ma la sensazione è che questo tema sia una specie di grande elefante nella stanza, evidente da tempo ma di cui si fatica a parlare, quasi un tabù.

Milano  è un po’ sempre la prima della classe che fatica a mettersi davanti allo specchio e a prendere atto dei suoi guai, soprattutto quando questi gettano una luce indesiderata sulla narrazione prevalente, fatta di libertà e diritti, produttività e progresso.

Tutti elementi presenti davvero, ma che si intrecciano con altro: sono molti i volti di Milano che non accedono alla rappresentazione pubblica. Milano è molte cose, e molte di questa ancora oggi restano invisibili.

Il problema sicurezza c’è e dovrebbe essere affrontato su più livelli, con una differenza di passo e vedute: interventi contingenti nell’immediato ma anche comprensione delle sacche di disagio sempre troppo poco viste e supportate, che inevitabilmente conducono nelle periferie (interne ed esterne), ancora considerate, checché se ne dica, ripostigli umani, comodi dimenticatoi che dislocano i poveri accumulandoli tra di loro fuori dal campo visivo della comunità.

Interi quartieri o proprio paesi, comuni, sigillati, lasciati soli nell’alimentare internamente circoli viziosi, dove al massimo il vicino di casa ti dà il cattivo esempio.

Polarizzazioni territoriali

È probabile che tra gli sconvolgimenti della pandemia ci sia anche questo: un inasprimento delle polarizzazioni territoriali.

Da qui il bisogno che ci sarebbe di ripensare la città in senso meno verticale, gerarchico, articolando in modo diverso il rapporto tra il centro e la periferia, violando questo senso ancora vistoso di contrapposizione – concreta e psicologica – tra chi può e chi no, chi sta ai margini e chi sfolgora nel cuore di tutto.

Le periferie dovrebbero forse essere ibridate di più, l’asfissiante omogeneità di problemi che le abita andrebbe alterata, smantellata, mischiata con altro.

È un tema ovviamente enorme e molto complesso, che ha radici lontane e chiama in causa i privilegi di pochi e l’orizzonte contratto di troppi, ma è tempo che chi guida questa città – e chi la guiderà in futuro – se ne faccia carico, anche provando a immaginare alternative, urbane e sociali, materiali e culturali, a un segregazionismo di fatto, longevo serbatoio dal quale i problemi più recenti facilmente hanno attinto e continueranno ad attingere.

© Riproduzione riservata