C’erano i tempi in cui l’intelligenza laica aveva la forza di presidiare le derive della società e della cultura, fungendo da coscienza critica dell’Occidente. Tempi in cui da questo pensiero in effervescenza venivano manifesti, richiami, appelli, stimoli, su cui la società sapeva di poter far conto per non assopirsi nel grande sonno della ragione.

E c’erano tempi, nella Chiesa cattolica, in cui i teologi del nord Europa sfidavano con spavalderia le mura del magistero romano, invocando quella libertà e ariosità di cui l’intelligenza del Vangelo non può fare a meno per essere all’altezza della propria ragion d’essere – dentro e fuori la Chiesa.

Oggi ci sembrano quasi favole che raccontiamo ai nostri bambini, per non cadere noi adulti in crisi depressive senza vie di uscita. E ripensiamo con un velo di nostalgia a tutte le discussioni acrimoniose sugli intellettuali organici…

Averne oggi di intellettuali degni di questo nome, li perdoneremo qualsiasi tipo di organicità pur di poterci abbeverare a qualche brandello di pensiero. Perché tra le veline e gli intellettuali, ai nostri tempi, è difficile dire dove stia la differenza.

Ai discepoli e ai saggi

In questo vuoto di pensiero che strapiomba sul nostro tempo si è intrufolato un gruppetto improbabile di teologhe e teologi con un appello – «ai discepoli e ai saggi» dicono loro – che porta il titolo Salvare la fraternità – insieme (inquietante, urgente e invitante allo stesso tempo). Improbabile, perché si ritrova da anni, senza aver prodotto nulla fino a un paio di settimane fa, in ragione più dell’amicizia che di un’uniforme visione teologica. Improbabile, perché un paio di loro si sono dovuti bere sanzioni disciplinari pesanti da parte della Chiesa cattolica pre-Francesco. E improbabile perché questa armata Brancaleone di teologhe e teologi è stata convocata, anni addietro, nientedimeno che dalla Pontificia Accademia per la Vita – un tempo bastione della più intransigente versione wojtyliana del cattolicesimo contemporaneo, e oggi sapientemente condotta fuori da quelle secche da mons. Vincenzo Paglia e Pier Angelo Sequeri (anche se, per dovere d’ufficio, i nostri due epigoni della Chiesa di Francesco nel cuore vaticano della cattolicità continuano a dire che tra il prima e il dopo c’è una perfetta continuità).

La tesi di fondo è presto detta: pensare teologicamente per salvare l’umano comune. La critica al maistream del narcisismo e alla subalternità alla ragione strumentale (tecnica) richiede una nuova responsabilità dell’intellettuale. L’enciclica Fratelli tutti legittima una nuova internità della Chiesa nel dibattito civile. Questo significa per la teologia archiviare la pretesa di sovraintendere alla cultura, di abbandonare l’interesse al potere a favore della testimonianza evangelica, di uscire da un linguaggio autoreferenziale.

Per la Chiesa: passare dall’attenzione a sé stessa alla spendita per il bene di tutti. La proposta per l’intelligenza laica è di non affogare nella semplice destrutturazione, di legittimare il riferimento al trascendente e di evitare l’ennesimo “tradimento dei chierici”.

Dopo decenni di rivendicazioni della teologia davanti al magistero, che non hanno portato da nessuna parte a dire il vero, per quanto sacrosante potessero essere le ragioni addotte, questo gruppetto simil-carbonaro di teologhe e teologi si cimenta nell’impresa di fare teologia e basta – e di farla per tutti, per ogni uomo e donna che sono al mondo senza chiedere loro alcun certificato di idoneità a cadere sotto l’ala della sua preoccupazione.

Ma soprattutto fa teologia sapendo che la teologia da sola non basta, che o oggi si convocano le forze migliori del pensiero che resta (ovunque esso abbia casa) o rischiamo di perdere, quasi senza accorgercene, quel benedetto patrimonio comune che è la nostra umanità.

Niente da insegnare

I nostri giocano, dunque, l’azzardo di andare a stanare gli intellettuali nella Chiesa e fuori di essa; mostrando una fiducia quasi ammirevole nella loro persuasione che, da qualche parte, del buon pensiero degno dell’impresa della ragione ci debba pur ancora essere. E tagliano subito la testa al toro che si infuria non appena sente odore di Chiesa: non abbiamo nulla da insegnarvi, ma solo una passione e una preoccupazione che desideriamo condividere con voi – perché sappiamo che da soli non ce la possiamo fare.

Certo, il testo è migliorabile – qua e là con qualche caduta di stile: tanto è avvincente l’appello ai discepoli, quanto nella lettera ai saggi ci sono tracce di un paternalismo retorico che può risultare un po’ indigesto a una prima lettura. Ma sono quisquiglie coi tempi che corrono.

Se tra gli intellettuali laici del nostro tempo ci sono dei saggi, le sopporteranno in nome dell’urgenza dell’impresa a cui vengono invitati.

Perché, come dovrebbe essere di ogni appello, quello del gruppo di teologhe e teologi raccolti dalla Pontificia Accademia per la Vita è in attesa di risposta – ossia, non vuole essere senza ciò che potrebbe suscitare nella sensibilità e nel pensiero di altri che sono completamente diversi da loro. Da solo, e lo dicono loro stessi, l’Appello non ha senso, non sta in piedi, rimarrebbe solo l’esercizio sterile di un buon pensiero.

Con le migliori intenzioni

Non si era ancora visto un documento uscito dalle stanze del Vaticano che fosse in cerca di autori e di autrici – indifeso, ospitale, in attesa di ciò che non può generare da sé. Forse, uno degli indici più cristallini degli esiti del pontificato di Francesco – e davanti a qualcosa del genere gli intellettuali di ogni colore ideologico sono messi a nudo, quasi stanati dal loro quieto vivere. Perché qui non si chiede di essere d’accordo, ma di lavorare e, soprattutto, pensare insieme.

Sparpagliati, pur tutti equipaggiati delle migliori intenzioni e, talvolta, di qualche buona idea, non si va da nessuna parte. In primis, la teologia – ma questa sembra averlo capito; forse il cosiddetto pensiero laico immagina ancora attraversate solitarie, confondendo l’isolamento con l’autonomia o la conquista egemone della cultura con il bene dell’umano che è comune a tutti noi (anche a quelli che non la pensano come noi).

Un sassetto gettato nello stagno dell’intelligenza del nostro tempo: se non si è già trasformato completamente in palude qualche cerchietto concentrico dovrebbe pur riuscire a produrlo. Se così fosse, sarà un bene per tutti – anche per una Chiesa cattolica che sta annaspando in sé stessa.

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