Dopo l’ennesimo incidente in un cantiere che ha tolto la vita a cinque operai a Firenze, apprendiamo dal titolo di apertura de La Verità di lunedì che «le morti sul lavoro sono colpa dell’immigrazione selvaggia». Non erano forse straniere quasi tutte le vittime? Del resto, veniamo informati da altri giornali del fatto che nel cantiere «c’erano operai irregolari in Italia», «clandestini».

A un primo sguardo, par di capire che la colpa della loro morte sia da attribuirsi alle vittime stesse e ai loro selvaggi e irregolari movimenti, e ovviamente a chi li consente. D’altra parte, non si disse forse che la causa dell’attentato suprematista di Macerata del 2018, nel quale un uomo adornato di simboli neo-fascisti sparò a sei persone scelte sulla base del colore della loro pelle, era da individuarsi nella «bomba immigrazione», con reciproche accuse, da destra come dal centro-sinistra, su chi avesse fatto entrare più immigrati quando si trovava al governo alimentando così l’esasperazione degli italiani?

E non siamo stati bombardati per anni da media, politica e autorità con una sequela di j’accuse contro gli scafisti – perlopiù migranti cui viene messo in mano un timone – sbattutici in faccia, con tanto di foto segnaletica, come responsabili primi, e si direbbe unici, delle morti in mare?

Lebbrosi, vagabondi, eretici

Gli esempi potrebbero continuare. L’ingrediente comune è la strategia chiamata in inglese blaming the victim (dare la colpa alla vittima). Un capovolgimento narrativo nel quale l’inversione dei ruoli di vittima e carnefice indirizza sulla prima la riprovazione morale. La grande antropologa Mary Douglas ha mostrato come l’accusa di «recar danno» sia stata spesso rivolta contro i soggetti bisognosi dei quali la società non si voleva fare carico.

Nell’Europa del dodicesimo secolo, ad esempio, i lebbrosi (che spesso, in realtà, finivano per rivelarsi non affetti dal morbo) erano accompagnati dal disprezzo per la loro depravazione, per un appetito sessuale smodato col quale avrebbero propagato il contagio.

La stigmatizzazione delle vittime – vagabondi, mendicanti ed eretici, una popolazione senza terra e in eccesso – consentiva di isolarle e privarle dei loro beni, liberando le istituzioni da fastidiosi obblighi morali. In tempi a noi più prossimi si sarebbe parlato di responsabilità sociale dello Stato.

E infatti, quando le politiche thatcheriane arrivarono all’assalto finale allo stato sociale, fiorivano sui tabloid inglesi le storie di scrocconi del welfare state, come nel caso – raccontato da uno dei padri degli studi culturali, Stuart Hall – degli italiani immortalati nell’atto di tracannare fiaschi di Chianti mentre chiedevano il sussidio di disoccupazione (si trattava in realtà di finti immigrati pagati allo scopo).

La colpa alle vittime

Ma dare la colpa alle vittime, alle vittime migranti, in particolare, non è solo un modo per deresponsabilizzare chi governa, producendo indifferenza per i soggetti subalterni e allontanando in questo modo possibili accuse di inazione. È anche un trucco, vecchio come il potere, ma mai svelato una volta per tutte e quindi sempre valido, per prevenire qualsiasi possibile alleanza tra subalterni, attizzando guerre tra poveri e concedendo ai soli “nativi” un beneficio di status, ovvero una protezione perlopiù puramente simbolica che garantisce però un consenso duraturo.

Chiunque abbia a cuore livelli minimi di giustizia sociale non può prescindere dalla denuncia di questo imbroglio, di chi consente gli appalti a cascata e le aste al massimo ribasso gettando poi la croce sui caduti; di chi ci dice che il problema sono gli “irregolari” e non le politiche che costantemente li producono; di chi ci ha abituati a distinguere tra Noi titolari di diritti e Loro che ne sono usurpatori. Senza costruire battaglie unificanti sul lavoro, sulla salute, sull’istruzione, ci si rassegna a percorrere la strada delle disuguaglianze crescenti e dei diritti decrescenti.

Un orizzonte di questo genere necessita però dell’azione congiunta dell’Europa. Dopo l’esperimento epocale di NextGenerationEU, si torna a parlare di debito comune europeo, ma solo come strumento per la difesa di fronte alle nuove sfide geopolitiche.

Se l’Europa vuole salvare se stessa e garantire un livello minimo di civiltà deve unire le forze anche in campo sociale, per difendere ed espandere quello che una volta si chiamava “modello sociale europeo” e che oggi deve proiettarsi anche oltre i nostri sorvegliatissimi confini. È questo il miglior antidoto al nuovo crimine di lasciarsi sfruttare.


Marcello Maneri, sociologo, Università di Milano-Bicocca

Ferruccio Pastore, Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’Immigrazione (FIERI), Torino

© Riproduzione riservata