Che cos’hanno in comune due scimmie cappuccine ospitate nel dipartimento di biologia della Emory University di Atlanta, e la dichiarazione dei diritti universali che i rivoluzionari francesi promulgarono nel 1789? Il paragone e’ meno bizzarro di quanto possa sembrare.

Nel 2003, i biologi Sandra Brosnan e Frans de Waal addestrarono due scimmiette, in due gabbie adiacenti e trasparenti, a raccogliere e consegnare un sasso in cambio di cibo. Inizialmente, i ricercatori premiavano una delle due scimmie con una fetta di cetriolo. L’animale rispondeva positivamente, mangiando il cetriolo e consegnando la pietra. Brosnan e de Waal coinvolsero poi il secondo primate. Tuttavia, il premio per lui era un acino d’uva. La prima scimmia, vedendo che l’altra riceveva del cibo più appetibile, si ribello’: visibilmente innervosita, tirava indietro ai ricercatori la fetta di cetriolo che le veniva offerta. L’animale era quindi disposto a sopportare dei costi – la protesta e il rifiuto di un cibo che comunque apprezzava -- per comunicare il proprio dissenso al fatto che, a eguale sforzo, una scimmia riceveva una ricompensa di maggior valore. Una reazione, questa, documentata anche in studi con esseri umani, ma a quanto pare più primordiale di quanto si pensasse: l'avversione all'iniquità’, cioè alla presenza di disuguaglianze di trattamento a fronte di egual merito.

La scimmia ribelle non lo sapeva, ma il suo comportamento ricordava i principi di uno dei documenti fondamentali stilati da altri ribelli, i rivoluzionari francesi. La Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789 esordisce con questo articolo: “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune”. La carta elaborata da LaFayette e compagni, quindi, definiva l’uguaglianza tra persone come un fatto di natura, ma la disuguaglianza sociale non era esclusa. Essa richiedeva, tuttavia, una giustificazione in termini di miglioramento delle condizioni generali. In mancanza di questo requisito.

Nel suo ultimo libro “Capitale e Ideologia” Thomas Piketty rafforza questa idea ulteriormente. Al di là della formalizzazione in dichiarazioni e leggi, un pilastro fondamentale della convivenza civile e’ la capacità di giustificare le disuguaglianze come beneficio per la collettività tutta. Insieme alle norme scritte, questo pilastro e’ solido quando tra i cittadini c'è fiducia che le istituzioni operino per rispettare questi principi.

Ci sono state due vie, nell’ultimo secolo, per semplificare questo patto sociale. Una è consistita nell’abolizione del patto sociale stesso, attraverso l'instaurazione di regimi autoritari che limitino o eliminino le opportunità di rivendicare quei principi fondanti. L’altra via fu l'eliminazione formale delle disuguaglianze. Come la prima via, storicamente anche la seconda si e’ accompagnata all’autoritarismo. Ed entrambi gli approcci hanno lasciato una scia di sangue, terrore e miseria.

La storia ci dice che la via dell’accettazione di questo patto sociale, delle gestione del conflitto, e della partecipazione e’ quella della democrazia basata su un'economia di mercato. La competizione e la proprietà privata si sono rivelati potenti incentivi al lavoro, all’iniziativa economica e alla creatività. Innovazioni politiche come i sistemi sanitari e di protezione sociale, l’istruzione universale pubblica, la tassazione progressiva, e i diritti sociali e civili, hanno contribuito a generare una crescita economica inclusiva, cioè distribuita fra tutti gli strati e accompagnata da mobilita’ sociale. Questo miglioramento della democrazia economica e’ stato possibile solo con una piena accettazione della democrazia politica, la sua gestione del conflitto, e il principio di responsabilità dei governanti sottoposti al giudizio popolare, tramite libere elezioni ma anche libera stampa. Un meccanismo mai perfetto, quello che alcuni chiamano capitalismo democratico, ma che ha mostrato flessibilità e dinamismo tali da guadagnarsi la fiducia di vasti strati della popolazione.

Nell’ultimo quarto del secolo scorso, tuttavia, e ironicamente proprio quando il capitalismo democratico suggellava la sua vittoria sul modello sovietico, il supporto popolare verso questo regime hanno cominciato ad affievolirsi.

Sfiducia nel sistema

La rivoluzione digitale e la globalizzazione hanno favorito, da una parte, la concentrazione di reddito e ricchezza in una classe imprenditoriale e manageriale dotata di istruzione e competenze avanzate, sempre più costose da acquisire e sempre meno alla portata della maggioranza. Automazione e delocalizzazione hanno ridotto, nei paesi occidentali, le opportunità di ottenere lavori stabili, ben pagati, e “buoni”, cioè dignitosi e gratificanti. La concentrazione del potere economico in un gruppo sociale più ristretto e con meno ricambio, per via della riduzione della mobilità sociale, ha poi portato a un’influenza sproporzionata di pochi sulle scelte politiche. Deregolamentazione, riduzione della pressione fiscale, depotenziamento della rappresentanza sindacale, divennero a partire dagli anni Ottanta più giustificate a seguito del crollo del socialismo reale, ma anche come conseguenza delle pressioni di una classe minoritaria ma sempre più influente.

La competizione politica per essere i paladini più credibili di questa nuova visione coinvolse anche le forze storicamente progressiste, convinte che si stesse verificando appieno quel connubio virtuoso tra democrazia politica e libertà economica. Si sottovalutarono quindi le crescenti disuguaglianze, la minore mobilità sociale, la perdita di dignità del lavoro per fasce sempre più vaste della cittadinanza. Ma si trascuro’ soprattutto l’impatto che queste dinamiche avrebbero avuto sulla sottostante fiducia nel sistema sull’accettazione delle disuguaglianze stesse. Questa accettazione richiedeva la realizzazione di un’autentica meritocrazia, di una società aperta e non sempre più segregata e patrimoniale come cento anni prima, di una effettiva rappresentazione e mediazione di interessi in conflitto, di una crescita inclusiva.

Come numerosi sondaggi e studi hanno mostrato, specialmente negli ultimi quindici anni e’ calata la fiducia popolare verso la democrazia rappresentativa nella maggior parte dei paesi occidentali. La disaffezione e’ maggiore fra le giovani generazioni e laddove le disuguaglianze sono cresciute di piu’.

L’avvento e l'affermazione di forze politiche demagogiche, accomunate dal fastidio verso i meccanismi della democrazia rappresentativa, dal sostegno per esecutivi più potenti, da una concezione di “popolo” come entità amorfa e indistinta, e da richiami a identità nazionali o etniche che facilitano l’individuazione di un nemico da combattere, sono manifestazioni di una questione profonda e destinata a durare. Alla base c'è una sfiducia piu’ diffusa verso quegli stessi meccanismi che, piu’ di qualsiasi altro nella storia, avevano credibilmente promesso di offrire a tutti un'opportunità di realizzazione. Una sfiducia che ha investito quelle classi che, in principio, avrebbero dovuto beneficiare beneficiare di più da quel modello, e cioè le classi medie e basse.

Il compito delle forze politiche che storicamente hanno rappresentato queste categorie non e’ quindi solo di riavvicinarsi al proprio bacino elettorale, ma anche e soprattutto di restaurare fiducia nella democrazia. Nel far questo, e’ auspicabile che queste forze abbiano la creatività e il coraggio di andare oltre le proposte politiche della fine del Novecento, e siano più ricettive verso le idee che provengono sia dagli studi accademici sia dalla pratica politica recente. Una tassazione più progressiva che includa anche il capitale e la ricchezza, incluse le successioni ereditarie. Progetti di eredità universale, cioè di una dotazione economica per i giovani, di reddito garantito e salario minimo. Una maggiore valorizzazione del sindacato, che includa la rappresentanza di nuovi lavori formalmente autonomi ma di fatto dipendenti e con poche tutele, e contempli forme di compartecipazione alla proprietà e al governo dell’impresa. L’effettiva parità di accesso all’istruzione superiore, compresa la valorizzazione di formazione tecnica e professionale. Una politica industriale che orienti l'attività economica verso settori allo stesso tempo innovativi, creatori di lavoro buono e generatori di valore sociale, e che affronti le minacce non solo economiche ma anche politiche del controllo dell’informazione in mano a poche piattaforme digitali.

Meritocrazia reazionaria

La disuguaglianza sociale, tuttavia, non e’ l’unica fonte di pericolo per la democrazia. Nel suo libro “Il tramonto della democrazia”, Anne Applebaum sostiene che le vittorie elettorali di forze politiche reazionarie e autocratiche in Polonia e Ungheria e di demagoghi come Trump e Boris Johnson, e l’ascesa di partiti come come la Lega, Fratelli d’Italia e Vox (in Spagna) siano dovuti anche alla “conversione” verso questi movimenti e alle loro istanze di intellettuali, giornalisti e politici in grado di fornire una legittimazione culturale e di influenzare l’opinione pubblica (spesso in spregio dei fatti). Secondo Applebaum, questi sostenitori sono spesso persone mediocri, convinte di non avere avuto il successo che meritavano e alla ricerca di un riscatto.

L’impressione tuttavia è che il successo e la legittimazione di spinte reazionarie non sia stato facilitato solo da intellettuali e politici frustrati, ma anche da poteri ben più forti e vincenti. I leader delle grandi piattaforme tecnologiche hanno fatto da cassa di risonanza delle menzogne e gli attacchi di Trump, Bolsonaro o Salvini, perché proprio grazie alla loro viralità si generano più “traffico” e quindi piu’ proventi pubblicitari. Di fronte alla promessa di diminuzione delle tasse, anche molti esponenti repubblicani americani più “moderati” hanno ingoiato senza grandi patemi il suprematismo etnico e la corruzione di Donald Trump. E di fronte alla possibilità di ottenere strapuntini da affari milionari in certe parti del mondo, sedicenti alfieri del riformismo non hanno esitato a omaggiare principi e sultani liberticidi e sanguinari come profeti di un nuovo Rinascimento.

Mark Carney, già governatore della Banca del Canada e della Banca d’Inghilterra, e Rebecca Henderson, professoressa a Harvard, nei loro recenti libri esortano le classi dirigenti e industriali a impegnarsi direttamente a promuovere attivamente la partecipazione democratica e i valori dell’inclusione, perché senza una democrazia forte non ci sono le basi nemmeno per un capitalismo socialmente sostenibile. I comportamenti in questa direzione delle grandi imprese e delle parti politiche ad esse vicine negli ultimi anni non sono edificanti, ma certo questi inviti sono benvenuti e da sostenere.

La presenza di diverse minacce alla democrazia rende ancora più urgente che la sinistra faccia la sua parte, ed elabori una visione nuova, credibile e realizzabile di società che promuova la libertà economica, ma ne valuti l'efficacia in termini di promozione di una uguaglianza effettiva di opportunità in ogni fase della vita. Una societa’ in cui tutti si possano esprimere al meglio delle loro possibilità, e in cui non siano sempre gli stessi a prendere l’uva, e sempre gli stessi a prendere il cetriolo. Ne va del futuro della democrazia, ora più che mai da non considerare scontata. 

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