Non ci sono grandi sorprese nel Documento di Economia e Finanza (Def). Il governo ha sostanzialmente confermato gli obiettivi di finanza pubblica, che vedono una graduale riduzione dei rapporti di debito e Deficit nei prossimi anni.

Vi è una significativa revisione verso il basso nella stima di crescita, al 2.9 per cento nel 2022 rispetto al 4.7 per cento indicato in ottobre, che togliendo l’effetto trascinamento del 2021 si trasforma in una modesta crescita dello 0,6 per cento nell’anno.

Nonostante ciò, i margini di manovra creati dalle maggiori entrate e minori spese rispetto alle previsioni di ottobre, hanno permesso al governo di avere risorse aggiuntive per contrastare il caro energia.

Nel 2021, l’impatto della differenza tra gli interessi passivi e una crescita nominale effervescente ha più che controbilanciando il Deficit primario (3,7 per cento di Pil), e contribuito alla riduzione del rapporto debito Pil per circa 6.8 punti percentuali. Questo effetto continuerà a guidare la riduzione del rapporto nei prossimi anni, anche se diventerà meno favorevole.

L’effetto inflazione

È sorprendente, invece, come molti autorevoli commentatori abbiano male interpretato l’effetto dell’alta inflazione sulle dinamiche della finanza pubblica italiana.

«Se da una parte la minore crescita economica riduce il prodotto nominale, in rapporto al quale si calcola l’incidenza di Deficit e di debito, dall’altra l’aumento dei prezzi ‘gonfia’ questa grandezza, compensando in parte l’effetto statistico negativo». E ancora «un sostenuto aumento dei prezzi va a incrementare il ‘denominatore’ con la conseguenza che il numeratore (il debito) si riduce».

Dove sta l’errore? Un primo errore è di natura tecnica, mentre un secondo è di chiave interpretativa.

Il Deflatore del Pil ‘depura’ la crescita del Pil dall’aumento dei prezzi, ovvero dall’inflazione. Ma come ogni studente di economia ha imparato, l’aumento del Deflatore può non coincide con l’aumento dei prezzi al consumo.

Infatti il Deflatore si riferisce a tutte le componenti del Pil, incluse le importazioni. L’aumento dei prezzi di queste ultime però figura con il segno negativo.

Se il Deflatore delle importazioni supera quello delle altre componenti, il Deflatore del Pil cresce di meno. Quest’ultimo è salito ‘solo’ dello 0,5 per cento nel 2021 a fronte di una crescita dei prezzi al consumo dell’1,9 per cento.

Il Def prevede un Deflatore delle importazioni al 7.6 per cento nel 2022 (molto basso alla luce dei recenti dati). Poiché si sottrae, il Deflatore del Pil è previsto crescere soltanto del 3.0 per cento a fronte di una crescita dei prezzi al consumo prevista al 5.8 per cento (sovrastimato il primo e sottostimata la seconda, a mio avviso).

Quando l’inflazione è prevalentemente importata, come nel caso attuale, essa deprime il Deflatore del Pil e quindi anche la crescita nominale, con un effetto sfavorevole sui rapporti di finanza pubblica.

Effetto energia

Il secondo errore è più concettuale. Dalla metà dell’anno scorso, il rialzo dei prezzi energetici e delle materie prime rappresenta uno shock massiccio sulle ragioni di scambio del Paese, che di fatto impoverisce tutti, famiglie e imprese. Lo shock rappresenterà più un problema per la crescita reale che per l’inflazione, soprattutto se si tradurrà in un cambiamento strutturale.

Cioè, se la necessità di ridurre la dipendenza dal gas russo (e quella di attuare la transizione climatica) si tradurrà in un periodo prolungato di prezzi energetici elevati. Infatti, l’iniziale shock d’offerta si tradurrà presto in uno shock di domanda. Le famiglie avranno meno reddito reale da utilizzare per la parte residua dei loro consumi. Inoltre, gli utili si comprimeranno, e quindi le imprese faranno meno investimenti.

Cosa significa tutto questo per il rapporto debito/Pil? Lo dice il Def, anche se, per ovvie ragioni, non lo sbandiera. Aumenterà il numeratore (a causa della diminuita crescita economica reale) e crescerà di meno il denominatore (minore crescita nominale), con il risultato di aumentare il rapporto.

Il Def ha fatto emergere anche un altro problema. Lo stock di titoli di stato indicizzati all’inflazione è aumentato significativamente negli ultimi anni sino a un 11.1 per cento del totale a fine 2021. Gli interessi sono legati ai prezzi al consumo e non al Deflatore, e quindi contribuiscono a spingere la spesa verso l’alto in rapporto al Pil.

La spesa per interessi è aumentata da 57,3 miliardi di euro nel 2020 a 62,9 nel 2021. E questo nonostante il rendimento delle nuove emissioni sia sceso allo 0,10 per cento nel 2021 rispetto allo 0,59 per cento del 2020.

Ovviamente l’aumento dello stock di debito è stato il fattore dominante per l’aumento della spesa per interessi, ma hanno contribuito anche le cedole elevate dei titoli indicizzati e lo faranno ancor di più quest’anno.

Al di là di questi aspetti tecnici, il vero problema è che l’anno prossimo i conti pubblici non saranno più sotto l’ala protettiva delle politiche di Draghi e Franco, e allora anche queste dinamiche passeranno in secondo piano rispetto ai rischi della politica.              

Twitter @lorenzocodogno

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