Ci sono sempre decine di economisti che ogni anno meriterebbero il Nobel, i vincitori spesso lo ottengono a decenni dalla pubblicazione delle ricerche citate nelle motivazioni.

Dunque quello che è interessante analizzare è il tempismo: perché un certo economista vince il Nobel proprio in quell’anno? Quale segnale ne traiamo sull’orientamento del dibattito e del consenso in termini di politiche economiche?

A volte è facile: nel 2008 vince il Nobel Paul Krugman, il più feroce critico delle politiche fiscali del presidente americano uscente George W. Bush, nel 2018  William D. Nordhaus per le sue ricerche sull’economia della crisi climatica, mentre gli Stati Uniti di Donald Trump sono usciti dagli accordi di Parigi sulla transizione verde. E così via.

Dunque come va interpretato il premio Nobel 2022 a Ben Bernanke, Douglas Diamond e Philip Dybvig? Lo meritano, senza dubbio, ma perché ora? Sembra in ritardo di un quindicennio.

Le ricerche premiate sono quelle di Bernanke che dimostrano l’importanza dei fallimenti bancari nelle conseguenze durature della Grande depressione americana di quasi un secolo fa.

 Diamond (University of Chicago) e Dybvig (Washington Univesity in St Luis) hanno costruito un modello che spiega tanto l’utilità delle banche nell’intermediazione del credito (servono delle istituzioni, se gli individui o le imprese si prestassero denaro tra loro avrebbero rendimenti minori) sia la necessità di una regolazione per affrontare le fragilità inevitabili di un sistema che ha crediti a lungo termine e passività a breve.

L’eredità di Bernanke

I lavori alla base del premio sono rispettivamente del 1984 e del 1983, ma soprattutto sono stati di estrema rilevanza politica durante la crisi del 2007-2008, quando Ben Bernanke era a capo della Federal Reserve americana.

L’uomo giusto al momento giusto, si disse allora: proprio per i suoi studi sulla Grande depressione, in scia a quelli di Milton Friedman e Anna Schwartz sulla storia monetaria degli Stati Uniti, Bernanke ha impostato una gestione della crisi opposta a quella seguita tra il 1929 e il 1933.

Durante una crisi finanziaria, è stata la linea di Bernanke, le banche vanno salvate e non si può lasciare che una crisi di liquidità momentanea si trasformi in una crisi di insolvenza per lasciare che il mercato faccia il suo corso: l’approccio “liquidazionista”, prodotto del puritanesimo, offre una soddisfazione effimera, chi ha sbagliato paga, ma poi le conseguenze sono di lungo periodo e si scaricano sui più fragili, attraverso l’aumento del tasso di disoccupazione.

Bernanke convince l’amministrazione Bush, nel momento decisivo, a salvare il sistema finanziario. E la scelta di abbandonare una banca, Lehman Brothers, per dare un messaggio alle altre ha offerto un assaggio di quali sarebbero state le conseguenze catastrofiche di replicare gli errori degli anni Venti.

Tutto giusto e riconosciuto dal dibattito economico dell’ultimo decennio. Ma dare il Nobel a Bernanke e colleghi assume un doppio, possibile, significato.

Il primo riguarda il dibattito sull’inflazione: Bernanke è stato anche il banchiere centrale che con le politiche monetarie iper espansive seguite al 2008 ha messo le basi, secondo molti economisti, della crisi di inflazione che stiamo vivendo ora.

Per anni ha rassicurato mercati e politici che, una volta sconfitto il rischio di depressione e deflazione, se i prezzi avessero tornato a correre la Federal Reserve aveva una cassetta degli attrezzi molto efficace per riportare la situazione sotto controllo.

Ora sappiamo che non è così, il suo successore Jay Powell ha perso ogni credibilità nel fare cose diverse da quelle promesse, nell’assicurare che l’inflazione era solo transitoria e poi riconoscere che invece è ormai strutturale.

Il comitato che assegna il Nobel, quindi, sembra dire a mercati e commentatori: ricordatevi perché  siamo arrivati qui, ci troviamo con un male fastidioso come l’inflazione anche per colpa di Bernanke, ma senza Bernanke forse saremmo nel pieno di una depressione.

Un premio Nobel a Larry Summers, inascoltato profeta della nuova inflazione, avrebbe dato un messaggio di segno opposto, cioè di drammatizzazione dell’attuale problema con i prezzi.

Un’altra crisi bancaria?

C’è una seconda interpretazione, più inquietante. Come dimostrano le turbolenze finanziarie di queste settimane, tra il crollo della sterlina dopo il ventilato taglio di tasse ai più ricchi e i problemi di Credit Suisse, il nuovo contesto macroeconomico potrebbe incubare crisi finanziarie inaspettate.

Ora che le banche centrali alzano i tassi di interesse per contrastare l’inflazione, molte situazioni calmierate dall’eccesso di liquidità  potrebbero rivelarsi problematiche, un po’ come quando si svuota la piscina e si scopre che qualcuno era senza costume.

Dalle criptovalute alle banche troppo disinvolte, presto potremmo aver bisogno di nuovo delle  ricerche di Bernanke, Diamond e Dybvig.

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