Se vuoi semplificare un procedimento, devi necessariamente semplificare i passaggi di carte, ridurre gli uffici competenti e razionalizzare il personale. Ed invece, in Italia, è di moda, per “semplificare”, creare nuove strutture amministrative che si sovrappongono a quelle esistenti, aumentare i livelli di governo e quindi il quadro delle competenze, e, infine, assumere nuovo personale.

In questa scia si inserisce anche l’ultimo decreto legge “semplificazione”, il n. 77 del 2021, che, in mezzo a proposte più che sacrosante, istituisce 18 nuovi uffici, strutture, e tavoli “permanenti” per svolgere compiti che lo stesso decreto definisce “temporanei”.

Semplificare è il mantra della politica italiana da oltre vent’anni.

Nel 1997 il Parlamento approvò una legge per dire che ogni anno, con un’altra legge, si sarebbe dovuto semplificare. Nel 1999 la prima legge annuale di semplificazione obbligò il governo a valutare preventivamente l’impatto - su imprese e cittadini - dei propri disegni di legge: per dare attuazione a questo obbligo, servirono un Dpcm, tre direttive presidenziali, una circolare ministeriale e l’istituzione di un ufficio ad hoc.

Nel 2005, con un’altra legge, quell’obbligo fu rivisto e si ricominciò da capo con l’attuazione: stavolta tre Dpcm, una circolare, l’istituzione di un comitato interministeriale e di un ulteriore ufficio.

Nel 2008 ci provò Roberto Calderoli Ministro per la semplificazione del IV governo Berlusconi: si inventò – e fu veramente geniale – la “legge taglia-leggi” ovvero un provvedimento ghigliottina che abrogava tutte le leggi emanate prima di un certo anno. In questa giustificabile furia “leggicida” ci finirono anche le leggi istitutive della Corte dei Conti, o dei comuni di Follonica, Sabaudia e Aprilia, o del parco nazionale d’Abruzzo e perfino quella che aveva abolito la pena di morte. L’effetto fu l’approvazione di una “legge salva-leggi” per recuperare quanto si era perso per strada.

Dal 1999 ad oggi contiamo oltre 40 decreti legge, leggi o decreti legislativi di semplificazione. Nei soli ultimi due anni, abbiamo avuto 3 decreti legge e 2 leggi, forse a riprova che i precedenti atti non hanno funzionato.

Il legislatore è convinto che per “snellire” un procedimento occorre tagliarne, per legge, i tempi: sicché fioccano le norme con cui si sostituiscono “60” giorni a “45, “45” a “30”, “15” a “30”, “10” a “15”, “5” a “10”. Di questo passo, tra qualche anno, i prossimi decreti fisseranno i tempi in ore anziché in giorni. Ovviamente non è cambiando un numero in una legge che si semplifica il procedimento.

Il caso dell’ambiente

Questo dato appare palese, ad esempio, con riferimento alla valutazione di impatto ambientale dove il grosso problema non attiene alla struttura del ministero della Transizione Ecologica ma al fatto che non esiste un format standard di progetto da sottoporre a valutazione e che le fasi di presentazione e pre-valutazione dei progetti non sono automatizzate. Tale carenza costringe ad una continua interlocuzione tra proponenti e valutatori: questi ultimi cercano di avere informazioni di maggiore dettaglio e i primi di intuire se l’orientamento è favorevole perché, prima ancora di investire dei soldi per elaborare un progetto come si deve, vogliono comprendere se sarà accolto o meno.

Conseguenza: inizia un continuo rimpallo di richieste che porta via tempo, spesso anni, solo per poter avere il progetto da valutare. Non a caso molti esperti del settore chiedono di introdurre un’interfaccia digitale per la presentazione dei progetti, con griglie obbligatorie e vincolanti, così da rendere totalmente automatizzato il processo di screening delle domande e scartare, in automatico e in tempo reale, quelle che non hanno un adeguato grado di dettaglio.

La smania della semplificazione contrasta, però, con un’altra smania, quella della riorganizzazione. Negli ultimi 2 anni sono stati riorganizzati 6 ministeri: di questi, ben 3 dovranno subire ora una nuova e ulteriore riorganizzazione della riorganizzazione conclusa lo scorso anno, il che vuol dire riscrivere le regole di funzionamento delle strutture amministrative, selezionare nuovi direttori generali e poi nuovi direttori di divisione e, una volta finito il complesso giro di carte, mettersi al lavoro. In media si stima che una riorganizzazione porti via un anno di tempo al lavoro quotidiano e che, dopo averla completata, servano almeno altri sei mesi per mettere in funzione la nuova macchina.

Come in un gioco dell’oca, si ricomincia sempre da capo. A volte non si capisce se si vuole semplificare davvero o semplicemente abbassare il grado di tutela.

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