I primi discorsi dopo la conferma della vittoria elettorale di un presidente e del suo vice sono un tradizionalmente oggetto di studio da parte degli analisti politici.

Quelli di Joe Biden e di Kamala Harris sono stati discorsi importanti, punti di svolta che arrivano dopo quattro anni di barbarismi retorici e bullismo politico. 

Dopo un governo che ha marcato il primo esempio di cattivo populismo, incrinando una consolidata credenza nell’eccezionalismo americano. Perchè negli Stati Uniti, il populismo è associato a qualità positive.

Donald Trump ha mostrato che anche gli States possono produrre populismo tossico, proprio come l’America Latina o l’Europa. Fine dell’eccezionalismo.

Quello che si riporta agli anni di fine Ottocento, quando nacque il “People’s Party” che ha lottato per la democratizzazione contro l’oligarchia, per la centralità della classe media produttiva contro le multinazionali e il capitale finanziario.

L’elezione di Trump nel 2016 ha mostrato un’altra faccia del populismo, quella consueta e nota a molti latino-americani ed europei: l’arroganza di chi dice di rappresentare non “una” maggioranza eletta ma la “vera” maggioranza; di “essere la voce” del popolo “vero”, scremato di tutto il resto: le opposizioni, le minoranze, coloro che lavorano nelle istituzioni come funzionari non eletti.

Trump ha cominciato il suo mandato nel gennaio 2017 con l’argomento che ha segnato tutto il suo governo:  «La nostra non è stata una vittoria dei politici, ma del popolo […]. Come mi ha detto una donna, ‘Ci siamo ripresi il nostro governo’ … Io sono il popolo Americano che arriva oggi a Washington».

Il popolo lo vuole?

Io, il popolo. Questa la cifra di quattro anni di arrogante governo: legittimato a fare e dire tutto quel che al presidente conveniva far passare come ciò che il popolo aveva chiesto a lui di fare e di dire.  Il cesarismo mediatico significò il rovesciamento della funzione rappresentativa della democrazia: non il dare voce o fare “advocacy” ma il prendersi la voce per sostituirsi ai rappresentati e alle istituzioni.  Resistendo alla conta dei voti, due giorni fa Trump ha detto: “la folla” è il verdetto, non i voti che sono arrivati per posta, spediti da chissà chi e chissà dove. «Io, il popolo» contro procedure e istituzioni.

Il discorso di Joe Biden, ieri notte da Wilmington, Delaware, ha rovesciato con stile e simpatia il bullimo egocratico del suo predecessore. Lo ha fatto nella maniera più semplice e chiara, scandendo di proposito “We, the People”.  Tutti i cittadini. Punto. “Noi” invece di “Io”. Questo è l’inizio.

Con uno stile che riporta il discorso politico, la retorica politica, al centro della scena. La parola non il parlante; e poi, la ritualità della parola pubblica in occasioni di pubblico riconoscimento del risultato del voto di cittadini liberi. Questo è un voltar pagina. Quello che avverrà d’ora in poi sarà giudicabile e criticabile, come è giusto che sia, in quanto scelta politica nel nome di un progetto, non perché “Io lo dico”.

A ruota ma in effetti ancora più radicalmente “turning point” è stato il discorso di Kamala Harris. Forse più efficace di quello di Biden.

La nuova vice del Commander in Chief ha detto: «Mentre sono la prima donna a ricoprire questo ruolo, non sarò l’ultima». Anche questo è un documento del “noi” – non Io, ma tutte; non Io come eccezione, non Io come l’unica, ma Io come la prima di tante uguali e diverse. “ Io” fra tante che verranno – “Noi”.  

Un uso perfetto e intelligente del linguaggio, sobrio eppure radicale perchè fondato sulle radici della promessa democratica che è promessa di inclusione e, quindi, di futuro. Rafforzata da una denuncia, frontale e chiara, della discriminazione razziale che Harris ha definito «sistemica».  Non questo o quel successo o insuccesso  – come ci aveva abituato la retorica di Trump, sempre occasionalista e contingente – ma un sistema congegnato e oliato per riprodursi nel tempo – l’uguaglianza come inclusione deve essere altrettanto sistemica del suo opposto.  

Discriminazione sistemica

La disuguaglianza e la discriminazione razziale sono parte di un sistema che è votato a produrre gerarchia di potere in base all’appartenenza etnica, razziale, di genere e di classe. 

«Discriminazione sistemica» indica una filosofia del dominio che spesso, come nel caso di Trump, si serve di una retorica nazionalista che fa appello alla tradizione americana per giustificare la povertà come se fosse meritata, segno di poco impegno o di scele sbagliate.

L’idea di una discriminazione “sistemica” fa piazza pulita di questa scandalosa filosofia del merito cieco alle condizioni di partenza.

Nella migliore tradizione democratica americana, resa popolare dalla famosa parabola di Lindon B. Jonhson, non c’è merito se si presume una gara nella quale ai posti di partenza ci sono concorrenti in perfetta condizione fisica accanto a concorrenti che hanno catene ai piedi o sono affamati. 

Vedere le cose dalla prospettiva del “sistema” invita a cambiare il modo di operare.  Questo è il senso di un discorso, quello della vice, che carica di impegno la futura Presidenza a guida democratica. 

La riscoperta della scienza

E infine, a completare il discorso di Biden, quella lapidaria parola di Kamala Harris: “scienza”. Biden aveva anticipato che metterà in moto un comitato nazionale di esperti che dovranno consigliarlo autorevolmente. Una svolta a trecentosessanta gradi rispetto al bolsonarismo della Casa Bianca di Trump.  

Harris è andata alla radice di questo piano di intervento attivo: “scienza”. Ovviamente non per fare professione di scientismo e religione del fatto oggettivo. Ma per sottolineare la fine del governo del “si dice” e della “speranza in Dio, poichè comunque si deve morire”.  Scienza significa in questo caso rimboccarsi le maniche, come governo federale, e mettere in atto un piano di lavoro competente ed efficace per “curare” gli americani.

Le parole della vice Harris ci consentono di correggere un refrain italiano che ci ha accompagnato in questi giorni, profuso a piene mani a destra come a sinistra: “se non ci fosse stato il Covid” - si è sentito ripetere - Trump avrebbe vinto. Un giudizio miope e distorcente, a dimostrazione dell’impatto che la retorica di Trump ha avuto in questi anni. 

Non è stato il virus a mandare a casa Trump, ma la sua politica sul virus. E’ stato il suo (non)governo dell’emergenza pandemica, è stata la sua politica. Ha perso non per il virus ma per la sua inettitudine a rispondere alla pandemia – poiché il suo liberismo non poteva ammettere un governo della pandemia. La sconfitta di Trump è in questo senso una sconfitta di una filosofia e una pratica che ha guidato una parte del mondo in questi mesi, quella parte governata da populisti liberisti, anti-istituzione, anti-regola, anti-mascherina.

E’ questa logica suicida del “fate come volete” che ha perso.  “Se non ci fosse stato il Covid” è dunque una inferenza ipotetica senza senso. Ci sono sempre situazioni critiche alle quale dover rispondere, di fronte alle quali dover prendere decisioni.

A questo servono i governi e la politica. Trump ha perso, dunque, a causa del suo governo e della sua politica.     

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