La guerra israelo-palestinese delle ultime due settimane è la quarta negli ultimi quindici anni. Tre gli aspetti che l’hanno contraddistinta: l’uso della violenza da parte israeliana a Gaza, causando la morte di almeno 232 persone di cui 65 bambini, e oltre 60mila sfollati. In secondo luogo, l’inedita prossimità della guerra per gli israeliani, con città vicine alla striscia di Gaza ma anche la stessa Tel Aviv, raggiunte da razzi di Hamas che Iron Dome, il sistema di difesa missilistico israeliano, non è riuscito a intercettare. La terza novità è l’intensità della mobilitazione palestinese, partita da Gerusalemme est in seguito alle espulsioni di residenti palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarra, ed estesasi alla Striscia di Gaza, alla Cisgiordania, e alle città cosiddette miste, in cui vivono israeliani e palestinesi, dove si sono per la prima volta registrate violenze inter-etniche tra le due comunità, in particolare a Lod, ma anche a Jaffa e Haifa. La tragedia umanitaria nella striscia di Gaza, il rinnovato senso di insicurezza israeliano, la solidarietà intra-palestinese e internazionale non basteranno però a dichiarare morto il processo di pace di Oslo. Oslo ha rappresentato la hubris americana convinta di poter dichiarare la pace tra due attori politici in posizione di asimmetria strutturale, posticipando la risoluzione delle questioni politicamente dirompenti. Da allora gli accordi hanno permesso il consolidamento di uno status quo che avvantaggia lo stato di Israele in termini politici e territoriali, allo stesso tempo indebolendone le credenziali democratiche.

Oslo è morto

Il processo di pace di Oslo è morto: riconoscerlo e a superare quel paradigma potrebbe accelerare un’uscita dall’eterno ciclo di violenze, discriminazioni e ingiustizie.

Nel nostro paese la questione israelo-palestinese fatica a de-ideologizzarsi: da un lato chi sostiene un’accezione estesa del diritto all’autodifesa di Israele, dall’altro chi denuncia l’insostenibilità delle violazioni dei diritti umani dei palestinesi e la bontà della loro lotta emancipatrice. Sarebbe invece utile se si facesse strada la consapevolezza che non esiste alcun processo di pace che possa essere rivitalizzato: in Cisgiordania vivono ormai quasi mezzo milione di coloni israeliani (tra 145 colonie ufficiali e 135 avamposti), mentre a Gerusalemme est i coloni ebrei superano i duecentomila. Questi numeri e la pervasività della presenza israeliana nei Territori palestinesi rendono l’evacuazione israeliana materialmente impossibile. A ciò si aggiunge una maggioranza nell’opinione pubblica israeliana che rifiuta qualsiasi abbandono delle colonie.

Se nel dibattito prevalente, Oslo e i due stati restano l’orizzonte di riferimento per la questione palestinese, in Palestina e nella comunità arabo-americana, Oslo è morto da un pezzo e si pensa ad alternative. Secondo recenti sondaggi del Palestinian Center for Policy And Survey Research, più della metà dei palestinesi ritiene che la soluzione di due stati non sia più praticabile, mentre più di un terzo sostiene l’idea di uno stato binazionale con Gerusalemme come capitale, in cui in cambio della rinuncia alla sovranità palestinese, ai palestinesi sarebbero garantiti stessi diritti e dignità degli ebrei israeliani. Questo sarebbe soprattutto vero per le giovani generazioni palestinesi, sotto-rappresentate politicamente ma che costituiscono circa il 70 per cento della popolazione.

Uno stato binazionale

Il paradigma dei due stati non è più compatibile con la democrazia e il rispetto dei diritti umani. La comunità internazionale dovrebbe iniziare a premere per una soluzione che si focalizzi sulla promozione di pari diritti di cittadinanza, affinché un unico stato binazionale diventi progressivamente il paese per/di tutti: un paese in cui a tutti (residenti prima, cittadini poi) sia garantita libertà di movimento, diritto di residenza nell’intero territorio, accesso libero ai luoghi sacri, possibilità di acquistare proprietà, diritti politici, economici e sociali. In uno stato binazionale, i palestinesi, anche senza Gaza, rappresenterebbero il 40 per cento della popolazione totale. Diventerebbe impossibile ignorarli politicamente, ma non attenteranno alla maggioranza sionista, che ha a lungo temuto un “sorpasso demografico” imminente.

Per compiere questo salto, sarebbero necessari alcuni passaggi preliminari: in primis ripensare la rappresentanza palestinese, spingendo per un’esautorazione dell’Autorità palestinese. La comunità internazionale dovrebbe spingere affinché venga lanciato un dibattito costituente, aperto alle nuove correnti della politica palestinese, ma anche ai giovani, sindacati, associazionismo, donne e rifugiati. Occorrerebbe poi concentrare gli sforzi sul rispetto di una sola risoluzione Onu, quella 2334 del 2016 che dichiara illegali tutti gli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Gli insediamenti dovrebbero essere soggetti a sanzioni, tramite un processo istituzionalizzato di differenziazione dei prodotti delle colonie. Solo scavando un solco nel trattamento politico e economico internazionale tra Israele del 1948 e colonie, la colonizzazione si trasformerebbe in costo, reputazionale e finanziario, per Tel Aviv. È ancora possibile evitare futuri scoppi di violenze. Tuttavia bisogna cambiare le lenti con le quali si legge il conflitto, ristabilire qual è la parte offesa e aiutarla diplomaticamente a riequilibrare il rapporto che la vede opporsi a uno stato forte come Israele.

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