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Molti economisti ci hanno avvertito che le banche centrali devono evitare gli errori commessi negli anni Settanta. Hanno giustamente osservato che molti, come la Federal Reserve degli Stati Uniti, allora sottostimarono la minaccia dell’inflazione, a seguito degli shock petroliferi del 1973-74 e 1979-80, che richiesero sofferte politiche di disinflazione per riportare l’inflazione sotto controllo. Queste politiche di disinflazione hanno dato origine a una profonda recessione con una disoccupazione molto più elevata agli inizi degli anni Ottanta. 

In effetti, dagli anni Settanta, molti paesi hanno delegato la politica monetaria dai ministeri del Tesoro alle banche centrali indipendenti per evitare che prevalessero logiche politiche di breve termine nello stabilire i tassi di interesse.

La Bank of England è diventata indipendente nel 1997, la Reserve Bank della Nuova Zelanda nel 1990. In Europa l’avvento dell’Unione monetaria europea ha creato la Banca centrale europea (BCE), indipendente dalle istituzioni politiche dell’Ue e dei suoi paesi membri.

È giusto sottolineare che dovremmo imparare dagli errori del passato, quando non abbiamo preso sul serio le minacce dell’inflazione, lasciando che le aspettative inflazionistiche si radicassero e mettendo in moto una spirale salari-prezzi che ha richiesto poi che le banche centrali aumentassero i tassi di interesse sia nominali che reali, molto più di quanto avremmo dovuto fare se avessimo agito in modo tempestivo.

È vero anche che molti vedono la cautela di alcune banche centrali, in particolare della Bce, come controproducente.

Cosa c’è di diverso rispetto agli anni Settanta

Ci sono però anche  alcune importanti differenze rispetto agli anni Settanta. Si tratta di differenze che rendono il dilemma dell’attuale politica più complesso per le banche centrali e i governi.

Lo shock inflazionistico iniziale questa volta ha una base più estesa rispetto agli anni Settanta. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non ha soltanto causato uno shock ai prezzi del petrolio, ma anche (principalmente in Europa) uno shock al prezzo del gas.

La fornitura di tanti materiali è stata fortemente colpita dalla guerra in Ucraina, dai metalli come ferro, acciaio e nickel, ai materiali edili e ai prodotti petrolchimici, a prodotti intermedi chiave come il neon e il palladio usati nell’industria elettronica.

L’aumento dei prezzi dei generi alimentari in seguito allo scoppio della guerra sta causando anche una vera crisi umanitaria in molte parti del Sud del mondo, con i paesi a basso reddito del Medio Oriente e dell’Africa altamente dipendenti dalle importazioni alimentari provenienti da Ucraina e Russia. 

Una delle lezioni principali della crisi del Covid e dell’attuale guerra è che le catene di produzione globale sono molto più complesse che negli anni Settanta.

La globalizzazione rende più difficile capire come lo shock della guerra in Ucraina, o anche l’emergenza continua legata al Covid in Cina, con lockdown ripetuti nei centri manifatturieri chiave come Shanghai, colpirà l’economia globale non solo con un innalzamento dei prezzi, ma anche con una produzione ridotta, provocando una situazione di stagflazione.

L’incertezza sulla natura e durata dello shock è più marcata e questo fa sì che per i politici prendere decisioni sia molto più complicato.

In Europa la Bce si trova ad affrontare difficoltà soprattutto nel gestire l’uscita dai suoi programmi di acquisto di titoli (quantitative easing) poiché questo irrigidisce la politica monetaria per combattere l’inflazione.

Mentre aumenta i tassi di interesse, deve assicurarsi di evitare aumenti improvvisi dei premi di rischio sovrano che potrebbero verificarsi tra i paesi più indebitati come Italia e Spagna e i meno indebitati come la Germania.

A differenza delle autorità monetarie degli anni Settanta, la Bce ha di fronte una situazione molto più complessa in quanto gestisce la politica monetaria in diverse economie.

L’aumento degli spread, i differenziali di rendimento sul debito pubblico, potrebbe turbare il buon funzionamento dei mercati finanziari europei. In tal caso potrebbe servire continuare gli acquisti selettivi di asset come quelli usati durante il programma di acquisto nella pandemia (Pepp).

La poltica monetaria non basta

Un’importante lezione degli anni Settanta è che la politica monetaria non può fare tutto. Un fattore che potrebbe rendere l’attuale shock inflazionistico più semplice da gestire questa volta è che in molti paesi i salari reali sono probabilmente più flessibili rispetto agli anni Settanta. 

Questo è utile nei termini di gestione dell’inflazione, ma crea disuguaglianze più profonde. I paesi più poveri stanno già soffrendo per l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e dovremmo garantire che le esportazioni agricole continuino a fluire verso le economie a basso reddito.

Tuttavia, anche nelle economie a reddito più elevato, gli effetti sulla disuguaglianza saranno molto significativi poiché la spesa per i consumi delle famiglie più povere sarà più concentrata su beni di prima necessità come alimenti ed energia. I massicci aumenti dei prezzi dell’energia in Europa in particolare saranno duraturi e consistenti.

Nel Regno Unito l’inflazione è ben al di sopra degli aumenti salariali e delle tasse nette, che sono aumentate in aprile, e l’Office for Budget Responsibility indipendente ha stimato che il tenore di vita reale diminuirà del 2,2 per cento nel 2022-23. Sarà il più grande calo annuale della storia recente.

Questa è una delle ragioni per cui l’obiettivo della politica fiscale dovrebbe essere quello di indirizzare il sostegno temporaneo e basato sulle condizioni economiche alle famiglie più vulnerabili. Come hanno detto in tanti, compreso l’Ocse, queste misure potrebbero essere finanziate considerando le tasse aggiuntive raccolte extra sui profitti delle società energetiche.

L’unica lezione dal passato è che le banche centrali devono concentrarsi nel fissare le aspettative dell’inflazione, assicurando che gli errori degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta non si ripetano. Ma una lezione chiave del passato è che un solo strumento di politica macroeconomica non può fare tutto.

Gli strumenti fiscali devono essere usati per proteggere i più vulnerabili e, come in tutte le situazioni di emergenza, tutti gli aspetti della politica macroeconomica devono essere strettamente coordinati. 

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