La Corte costituzionale dovrebbe presto tornare a pronunciarsi sulla questione del «cognome del padre». «Si tratta di un ulteriore scossone all’edificio ormai pericolante della regola del cognome paterno, in palese contrasto con le Carte dei diritti fondamentali», dichiara Domenico Pittella, il giurista che ha ottenuto la rimessione alla Corte Costituzionale lo scorso 12 novembre una corte potentina.

Incostituzionalità

Nel 2016, la Corte costituzionale aveva già stabilito l’incostituzionalità dell’obbligo di attribuire soltanto il cognome paterno decidendo che d’ora in avanti i coniugi possono decidere insieme di attribuire entrambi cognomi: del padre e della madre. Senonché quando il pesce puzza perché andato a male non è sufficiente aggiungere una fetta di limone a guarnizione. E il nostro ipotetico pesce puzza perché nella questione del cognome paterno sono racchiusi tutta una serie di profili che vanno al di là della questione in sé, che, restando irrisolti, cominciano a diventare maleodoranti.

In primis, quella che l’ordinanza della Corte d’appello di Potenza chiama la «concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti tra i coniugi, ormai superata», che del tutto superata non è.

La disciplina del nome è l’eredità più evidente e pesante della nostra tradizione civilistica pre-repubblicana. La nuova Costituzione, con i suoi importanti principi di uguaglianza e di pari dignità dei coniugi, interviene nel 1948 a codici civili invariati – codici in cui valeva il principio dell’autorità paterna, non di uguaglianza dei coniugi. La Corte costituzionale ha quindi avuto il delicato compito di ripulire il codice delle sue incrostazioni più evidenti.

Che la regola del cognome del padre sia ancora lì ben salda (con la sola eccezione, che in realtà è variazione, dell’aggiunta del cognome materno in caso di accordo), però stupisce.

Potremmo immaginare il diritto di famiglia come un collage di norme che perseguono fini assai diversi. Ad esempio, il mantenimento del coniuge a seguito di divorzio è spesso una forma di compensazione per il lavoro domestico prestato quando l’altro coniuge operava all’interno del mercato del lavoro. Qual è la finalità di mantenere il cognome paterno? Nessuna.

“Consuetudine”

Dicevamo che si tratta appunto di un’eredità dei nostri codici e di una consuetudine secondo cui la donna veniva assorbita all’interno della famiglia e giuridicamente nella figura del marito. Questo nell’Inghilterra vittoriana aveva un nome assai emblematico: coverture, cioè copertura, nel senso che con il matrimonio la donna diventava giuridicamente invisibile e perdeva la capacità di vendere, acquistare, intestarsi proprietà, ricevere uno stipendio. Se il patronimico ha quindi perfettamente senso nell’Inghilterra vittoriana, non è così oggi.

Un secondo profilo interessante che dimostra come la questione vada oltre il cognome in sé è il seguente: non esiste neppure una norma giuridica che imponga il cognome paterno. Nel segno del tautologico è così perché è così, alcuni avvocati si sono trovati negli anni nell’imbarazzante circostanza di non sapere esattamente cosa impugnare.

Il Tribunale di Milano, nel 2001, ad esempio, si rifiutava di registrare il cognome materno dicendo che, pur non esistendo una regola, esisteva un principio radicato nella «coscienza sociale» e nella «storia italiana».

Allo stesso modo, l’avvocato delle parti che hanno sollevato la questione, nel dubbio decide di impugnare sia la «consuetudine» di attribuire il cognome paterno (e quindi la mera ripetizione nel tempo di una condotta che riteniamo obbligatoria) sia la norma «presupposta», nel senso che, sebbene non presente sembra essere data per assunta da una serie di altre norme (ad esempio in materia di riconoscimento del figlio o di attribuzione del cognome in sede di adozione).

Foucault avrebbe qualcosa da dire, se interpellato. Ci direbbe che il potere coercitivo non emana soltanto dallo stato ma da una serie di norme sociali ritenute prescrittive. Aggiungerebbe poi che compiamo una serie di azioni, come dare il cognome del padre, perché aspiriamo a dare forma a un progetto familiare riconosciuto dagli altri consociati, per un senso quindi di realizzazione e di vergogna derivante dalla paura della mancata realizzazione. Ci direbbe probabilmente che ambizione e senso di vergogna sono in grado di disciplinare i nostri comportamenti tanto quanto le norme giuridiche vere e proprie.

Ed è probabilmente ciò che è accaduto con il cognome del padre, quando negli anni abbiamo continuato a darlo ai nostri figli, inconsciamente, per la voglia di dare forma al nostro progetto di una vita a modo.

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