La prima visita internazionale del presidente del Consiglio Mario Draghi è in Libia e rappresenta un segnale politico inequivocabile: l’Italia non si rassegna e vuole contare. In questi dieci anni, da quando cioè il regime di Gheddafi è stato spazzato via con un’operazione pensata male e realizzata peggio, i fallimenti sono stati numerosi.

I libici si sono divisi non rispettando gli accordi di Skirat del 2015, candendo nel gorgo della guerra civile e perdendo de facto il controllo di loro stessi. Per combattersi, sia le fazioni tripoline che Bengasi hanno chiesto aiuto esterno concedendo ad ambigui alleati spazi e risorse che sarà difficile recuperare.

Nessuno dei due schieramenti ha prevalso mentre turchi, russi e altri paesi arabi hanno preso in ostaggio l’indipendenza libica. Le due parti, per sopravvivere, si sono date a segreti commerci di armi o a tenebrosi traffici di schiavi e di carne umana che lascia un segno indelebile su tutti i libici (e su chi in Europa li ha aiutati).

Per questo nessuno credeva che i tentativi in extremis dell’Onu avrebbero avuto successo: anche dopo la firma degli accordi di Ginevra già li si dava per falliti. Invece ecco la sorpresa: presidente e premier sono stati scelti dai 75 delegati di tutte le fazioni e la scelta ha stupito l’intera comunità internazionale.

I rappresentanti delle due parti in guerra hanno perso mentre sono stati indicati altri. Non erano i candidati della lista favorita, a dimostrazione che l’opinione libica (seppure rappresentata in modo limitato) ripudia la guerra civile. Le due assemblee parlamentari libiche hanno confermato la scelta, il governo è stato costituito e il passaggio delle consegne è avvenuto senza scossoni.

Per spiegare l’inattesa evoluzione, ora ci si cimenta nel cercare accordi segreti previ, immaginando un presunto ruolo turco o russo nel voto o scovando nella biografia dei nuovi protagonisti segnali premonitori (costui era gheddafiano, quest’altro islamista o amico dei turchi e così via). Senza diminuire l’importanza di tali analisi e dell’ingombrante presenza russo-turca, il nostro governo dovrebbe guardare al nocciolo politico delle novità in campo.

Esiste una volontà libica (ancora fragile ma manifesta) di tornare a essere uno Stato unitario senza essere teleguidati da nessuno. L’Italia è l’unico paese che può far leva su tale volontà politica ed esserne partner rispettoso. Roma non ha partecipato alla guerra civile (ed era riluttante anche all’intervento del 2011). Inoltre, almeno fino al 2014 ma anche dopo, siamo riusciti a far rispettare l’embargo sulle armi pesanti ciò che ha permesso alla Libia di non diventare un campo di rovine come la Siria.

L’Italia non è mai caduta nelle provocazioni dei padrini delle varie fazioni ma ha dialogato con tutti. Dobbiamo concentrarci sul fatto che il premier Abdelhamid Dbeibah e il suo governo, qualunque sia il loro background, potranno avere successo solo se sapranno ridare alla Libia la sua indipendenza. A questo il governo italiano si deve e si può applicare. 

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