C’era un tempo in cui si considerava l’elettorato del centrodestra come volubile, inaffidabile, inattivo. Oggi, se guardiamo i sondaggi dopo oltre un anno di governo Meloni, ci si impressiona per la stabilità nella distribuzione del consenso che la scena politica italiana offre e, in particolare, la solidità elettorale della destra appare oggi inscalfibile.

Ciò nonostante le difficoltà su cui è inciampato il governo Meloni negli ultimi mesi: una manovra di bilancio restrittiva e che non porta a compimento quasi nessuna della riforme previste dal programma di governo, la crescita economica in frenata, l’immigrazione ancora fuori controllo, una riforma del premieriato approssimativa e di difficile comprensione, i piccoli scandali personali che riguardano ministri e presidente del consiglio, la premier vittima di uno scherzo telefonico che assomiglia più ad una infilata dell’intelligence russa nel ventre molle della politica italiana.

Il consenso

Eppure, nonostante queste difficoltà, i partiti di governo sono immobili nei sondaggi, non perdono un voto. Bisognerebbe domandarsi perché.

Se il nostro sguardo volge a destra, troviamo un elettorato ancora convinto che tutte le alternative a Giorgia Meloni siano peggiori tanto sul piano ideologico quanto personale. Meloni è l’antidoto ad un progressismo spesso lontano dalla realtà concreta che la maggior parte degli italiani rifugge ed è anche l’ultima carta che non era stata giocata dagli elettori dopo la stagione dell’antipolitica.

Per cittadini, come quelli che votano a destra, in cui la politica non occupa il vertice delle priorità della vita quotidiana lo status quo è più rassicurante del cambiamento, anche perché negli ultimi anni il riformismo è coinciso spesso con la sottrazione di diritti, di patrimonio, di posizioni acquisite.

C’è in questo atteggiamento l’eredità del berlusconismo politico: si possono anche non realizzare le promesse elettori se non si impone agli italiani una pedagogia, cioè una forma di correzione del pensiero e dei comportamenti, se non li si condanna per i problemi del paese e se non si toccano troppo gli interessi diffusi.

L’opposizione divisa

Questa parte di italiani non si muoverà dalla destra fino a quando o ci sarà una crisi di sistema oppure emergerà una nuova offerta politica con una leadership forte da un’altra parte.

Se si guarda invece a sinistra, non si trova una offerta politica capace di far muovere gli elettori in proprio favore. In primo luogo perché il campo delle opposizioni continua ad essere spaccato in tre tronconi che si muovono in un’ottica di competizione reciproca più che unirsi per convincere gli elettori che non votano o votano a destra.

In secondo luogo, mancano leadership e concretezza tali da interessare un elettorato che non rientra nello “zoccolo duro” del centrosinistra.

Si prenda la battaglia per il salario minimo, che toccava anche molti elettori non di sinistra: è stata lanciata, dispersa tra le forze politiche di opposizione e poi di fatto abbandonata. In questo scenario, la vera opposizione al governo sembra più costituita dai mercati, dalla politica internazionale e dall’Unione europea, seppur quest’ultima in modo flebile in questa fase, che dai partiti della minoranza.

Senza unità e priorità ben definite l’opposizione rincorre il governo, magari ne sottolinea gli errori, ma non riesce a “bucarne” l’elettorato. Anzi c’è il rischio che di fronte alla solidità dei consensi della destra sia la sinistra, così divisa e poco decisa, ad uscirne male, con elettori demoralizzati e che scelgono la via dell’astensione.

A quel punto, magari alle elezioni europee, Giorgia Meloni potrebbe beneficiare dell’ennesimo regalo dei suoi avversari consolidando il proprio primato politico in Italia e arrivando con più slancio e forza a Bruxelles.

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