Giorgia Meloni ha indossato la divisa da generalessa De Gaulle, premier forte, rifondatrice di repubbliche, proprio mentre il suo potere si dimostra fragile. La vulnerabilità di palazzo Chigi sull’incursione dei comici russi. La legge di Bilancio bloccata dai vincoli del debito. Il drammatico conflitto in Medio Oriente che spinge l’Europa e ancor più l’Italia in un ruolo marginale. La presidente del Consiglio ricorre al mito della Grande Riforma, come fecero i suoi predecessori di ogni colore (Craxi, Berlusconi, D’Alema, Renzi), per fronteggiare le amarezze del presente e darsi un orizzonte progettuale.

Forza e fragilità sono la coppia che regge il potere, che in virtù del fenomeno più nuovo, la personalizzazione del comando, torna all’antico: l’identificazione tra il principe e il principato, tra le fortune e la rovina del singolo leader e l’ascesa e la disfatta dell’istituzione che occupa, dello stato che rappresenta. La riforma presentata venerdì è scritta a immagine e somiglianza della premier, ma fotografa più le paure che le ambizioni di Giorgia Meloni.

Risente dei traumi che la premier ha incontrato nel suo percorso politico. Nel 2010 Meloni ha vissuto la rottura del Pdl, con il suo ex leader Gianfranco Fini che cercò senza riuscirci di far cadere Berlusconi in Parlamento, senza una maggioranza alternativa. Nel 2011 il governo tecnico Monti nominato da Giorgio Napolitano la costrinse a lasciare il ministero della Gioventù, aveva 34 anni e la sua carriera governativa poteva finire lì. Il governo Draghi l’ha vista isolata all’opposizione.

Mai più tecnici

Di conseguenza, la riforma Meloni-Casellati ha due obiettivi. Mai più un tecnico a palazzo Chigi. Mai più Ciampi, Monti, Draghi, e neppure un domani Fabio Panetta. Se cade il premier eletto, si legge, verrà sostituito (solo per una volta) da «un parlamentare della maggioranza». Con conseguenze paradossali: se oggi la riforma fosse già in vigore, in caso di dimissioni di Meloni, palazzo Chigi sarebbe vietato al sottosegretario Alfredo Mantovano, che non è parlamentare, ma spalancato per l’altro sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, che è senatore.

Il secondo obiettivo è il presidente della Repubblica. Nonostante le insistite rassicurazioni, la riforma toglierebbe al capo dello Stato i due principali poteri: l’indicazione del presidente del Consiglio e lo scioglimento anticipato delle Camere.

Non di una Terza Repubblica si tratta, come affermato da Meloni, ma di una effettiva Seconda Repubblica, non per rafforzamento, ma per indebolimento, per svuotamento: a essere svuotati sarebbero il parlamento, la presidenza della Repubblica e gli altri istituti di garanzia, come la Corte costituzionale, la cui nomina almeno in parte finirebbe in mano alla maggioranza parlamentare di turno.

La riforma rappresenta le paure di Meloni (paura di cadere per una spaccatura della maggioranza, paura del governo tecnico, paura del Quirinale), ma non risponde alla crisi delle democrazie contemporanee, di società spaccate, di paesi divisi. Negli ultimi anni, soprattutto nei paesi in cui i cittadini votano per il capo dello Stato che è anche capo dell’esecutivo, il presidente da garante dell’unità nazionale è diventato il terminale di tutte le spaccature.

È successo negli Usa con l’assalto al Campidoglio dei trumpiani, in Brasile, in Francia, con i ripetuti moti di piazza contro Macron, in Israele, con le proteste contro il governo Netanyahu.

Solo la flessibilità della politica, non la rigidità di una regola, riesce a garantire la libertà di movimento che consente al sistema di correggersi e di cambiare in corsa.

Ma una politica in crisi da oltre trent’anni come quella italiana ha sempre preferito scaricare sul cattivo funzionamento delle istituzioni la colpa di una mancanza di visione.

La polemica

La polemica di Meloni contro i 68 governi in quasi 80 anni tradisce la voglia di chiudere con la Costituzione repubblicana e anti-fascista, come se fosse una parentesi, e aprire una nuova fase. Ma così si cancella la storia: la stabilità dei governi, del centrismo negli anni Cinquanta o del centrosinistra negli anni Sessanta, non era garantita soltanto dai capi del governo dell’epoca (De Gasperi, Moro), ma dalla loro capacità di fare le riforme che hanno cambiato la vita degli italiani.

Mentre una politica incapace di cambiare, perde il tempo a riformare sé stessa, finendo per toccare i più delicati meccanismi costituzionali. Ancora una volta, forza e debolezza coincidono. È il male di cui soffrono le nostre democrazie, con la tentazione di curare il male accentrando ancora di più i poteri.

Per l’opposizione che con il Pd si prepara a scendere in piazza l’11 novembre è un insperato spazio di manovra, per unirsi contro la riforma e fare breccia nelle contraddizioni della maggioranza, destinate ad aumentare.

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