Come si faccia a costruire in Italia un partito «progressista nei valori, riformista nel metodo e radicale nei comportamenti» è roba che non insegnano nemmeno a Sciences Po, quindi per dare sostanza al suo vaste programme Enrico Letta ha lasciato perdere la manualistica politologica e si è affidato a Ferragnez, il segretario in pectore del Partito democratico.

Nessuna operazione coordinata, s’intende, ma alla duecentesima diretta Instagram di Fedez con Alessandro Zan viene il sospetto che un segmento non irrilevante delle operazioni di costruzione e gestione del consenso sia stato nei fatti appaltato a chi ha strumenti più efficaci di quelli a disposizione del segretario ufficiale. Lui ha l’anima e il cacciavite, loro 36 milioni e rotti di follower: non è difficile capire a chi convenga esternalizzare certe mansioni.

Nella sua breve gestione del Pd fin qui, Letta si è concentrato soprattutto sul primo punto programmatico, il progressismo dei valori, che è anche quello su cui l’eccellente professore di caratura internazionale, tutto orientato sulla dimensione geostrategico-economica dei massimi problemi globali, è inevitabilmente più carente. Il Letta avanguardista dei diritti civili e delle battaglie culturali non quadra con il resto della sua biografia politica, e quindi ha dovuto fare una sapiente opera di riposizionamento puntando sul voto ai sedicenni, sullo ius soli, sulla patrimoniale (pratica archiviata da Mario Draghi nel giro di una mezza giornata) e infine sulla legge Zan, occasione perfetta per mostrare intransigenza su certe battaglie resa ancora più perfetta dall’opposizione di Matteo Renzi.

In questo contesto si colloca il ruolo di Ferragnez, che opera (operano) con efficacia ineguagliata proprio nello spazio della discussione in cui il segretario è più debole. Uno spazio tematico che per convinzione, necessità o calcolo – o tutte e tre le cose insieme – Letta ha scelto come questione fondativa o rifondativa di un partito che in quanto a litigiosità e tribalismo si conferma stabilmente in linea con gli standard della politica libanese. Avere Ferragnez come segretario esternalizzato offre i notevoli vantaggi che offrono tutti i portavoce ufficiosi, quella che gli americani chiamano deniability, la possibilità di dissociarsi, di dire io non c’entro, di diffondere e amplificare le proprie idee senza doverle affermare direttamente.

Questo si combina a meraviglia con la furba logica della confusione dei piani che in questi ordinari giorni di bisticci social Ferragnez, soprattutto nella persona di Fedez, sta esponendo in modo perfetto.

Quando se la prende con Renzi sulla legge Zan lo fa con il bagaglio di influenza che deriva anche dalla prossimità con il mondo politico; poi quando Renzi lo (li) sfida in un dibattito spiega che lui (loro) sono soltanto cittadini liberi che si esprimono liberamente. Un giorno è l’impolitico prestato alla politica, con tanto di format e ospiti, il giorno dopo è solo un tizio che si è sfogato con un post sulla pipì.

Nel leggendario litigio telefonico con un dirigente Rai sul discorso al concertone del 1° maggio, Fedez diceva una cosa notevole che allora è passata sotto traccia: era scandalizzato perché l’interlocutore timidamente faceva affiorare l’idea che le stesse parole pronunciate in contesti diversi potessero assumere significati diversi. La qual cosa è un’ovvietà colossale, ma allora il punto da portare a casa era quello della censura, mentre oggi anche l’influencer in lite con Renzi dice esattamente che il testo cambia in funzione del contesto.

Letta, che per rafforzare il partito ha bisogno di ricreare sia testo sia contesto, ringrazia per i punti di leadership che gli piovono addosso per interposto influencer.

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